AMNESIA 2.

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“Abbi cura dei tuoi ricordi perché non potrai viverli di nuovo”. Bob Dylan.

AMNESIA: ANCORA IL PASSATO, UN PO’ DI FATTI.

La finestra di ferro e priva di tendaggi dava su uno spiazzo rettangolare delimitato da un cancello automatico con una sbarra. Si sollevava e si abbassava, si abbassava e si sollevava, mille volte al giorno, anche di notte.
Ad alcune vetture veniva concesso il permesso di accedere dentro al cortile mentre fuori dalla recinzione si poteva scorgere un pezzo di super strada sempre trafficata e un grosso parcheggio di cemento zeppo di auto che rilasciavano abbagli sotto i raggi del sole.
Alice gironzolava irrequieta nella sua stanza pensando alle sue coetanee che in quelle giornate stavano frequentando regolarmente la scuola, gli sport e i vari divertimenti mentre lei era segregata e confinata tra quattro muri lucidi e bianchi che ormai mettevano la nausea soltanto a guardarli. Le pareti erano spoglie e desolate, il letto freddo e rigido.
“Alice, è ora dell’elettroencefalogramma!” Un’infermiera bionda e riccia, avvolta in un lungo camice azzurro la chiamò arrestandosi sulla soglia. Reggeva una cartella clinica sulla quale stava apponendo dei segni con una penna a sfera nera. Le rivolse uno sguardo fugace e sorrise con un solo angolo della bocca.
Alice lanciò un’altra occhiata giù dalla finestra e poi si diresse dietro all’infermiera affiancandola nel corridoio.
“Quando potrò andare a casa?”
“Quando scopriremo come curarti, cara.”
“Sono stanca, mi annoio, sono qui da due mesi!.”
“Hai ragione tesoro ma devi resistere ancora un po’. E’ un sacrificio che stai compiendo per migliorare il resto della tua vita. Hai delle amnesie frequenti, lo sai vero? Le vogliamo monitorare o no? E’ nostro dovere trattenerti per capire se esiste un modo per prevenirle o almeno per renderle meno invasive. Ecco, ieri… ieri sera cosa hai fatto?”
“… Non me lo ricordo.”
“Te lo dico io allora! Sei uscita dalla tua stanza e sei scesa con l’ascensore a piano terra. Un ausiliario ti ha sorpresa mentre davi dei pugni alla porta di entrata della rianimazione. Ti ha poi riaccompagnato nella tua stanza ed è stato persino costretto a sedarti con un tranquillante perché urlavi e non ti riuscivi a calmare. Scommetto che non ti sei accorta di nulla!”
“Infatti.” Rispose Alice abbassando il volto e osservandosi le piccole mani pallide.
“Ecco dove sta il problema cara Alice. Ti devi curare. E la settimana scorsa è successa più o meno la stessa cosa. E adesso fai la brava, stai tranquilla e fidati di noi.”
Alice non pronunciò più una sola parola. Venne intimata a distendersi semi-nuda su una branda davvero scomoda e fu ricoperta come sempre da gel e ventose. Chiuse gli occhi riuscendo a trattenere le lacrime grazie a un solo pensiero: tra meno di una mezz’ora sarebbe stato orario di visita e finalmente avrebbe potuto riabbracciare sua nonna.

Nel corso della sua vita era stata ricoverata più volte e per mesi. Fu sottoposta ad ogni genere di esame, fu visitata dai migliori neurologi di tutta Italia e furono interpellati anche numerosi specialisti provenienti da ogni angolo d’Europa. Una volta fu valutata anche da un tizio, un certo genio giapponese, dal nome impronunciabile. Ma Alice intuiva che tutti quei dottori tenevano di più allo studio della malattia che alla sua guarigione. Si percepiva come una cavia da laboratorio. Erano tutti davvero interessati alle sue amnesie ma, da ciò che captava a sensazione o tramite le discussioni alle quali spesso assisteva, avrebbero desiderato localizzare in maniera più precisa quell’area difettosa del suo cervello. La massa cerebrale conservava una miriade di misteri irrisolti e il suo deficit cognitivo e quell’amnesia così strana e attiva, avrebbe potuto aiutare la scienza, avrebbe magari regalato delle risposte e donato l’input per qualche ambita scoperta.
Spesso e volentieri gli specialisti non le rivolgevano nemmeno la parola se non per impartirle soltanto comandi. “Puoi sollevare la gamba e restare in equilibrio? Gira la testa a sinistra, brava. A destra? ..E ora per favore siediti dritta, qui.”

Quello, a tredici anni, fu l’ultimo ricovero di Alice. Da allora, lei e sua nonna Giulia evitarono di effettuare ulteriori esami, ignorarono ogni tipo di visita e vissero quella malattia in totale segreto poiché nessuno, proprio nessuno, durante tutti quegli anni di analisi continue, riuscì a essergli d’aiuto. Mai seppero dare una diagnosi precisa. Alice non ne trasse il benché minimo beneficio.
Anzi, le amnesie proseguivano sempre più intense. Se inizialmente avevano una durata di qualche manciata di minuti, col sopraggiungere dell’età adulta, queste si potevano protrarre per ore o addirittura le infierivano per un giorno intero.
Inoltre i medici avevano sempre espresso pareri contrastanti. Alcuni ritenevano che non ci si trovasse di fronte un comune caso di amnesia poiché avevano a che fare con una perdita di coscienza che causava dei “vuoti attivi”. Un’anomala reazione celebrale durante la quale Alice era in grado di muoversi e agire in maniera passiva e del tutto indipendente dalla ragione e dalla sua volontà. Altri invece lo avevano definito un caso del tutto eccezionale di “stato amnesico post traumatico”, senza tuttavia essere in grado di supportare questa diagnosi con tangibili prove o con i necessari riscontri scientifici.

Dopo aver consultato i tabelloni della linea ferroviaria e gli orari per il ritorno, Alice si percepì meno agitata. Si trovava in provincia di Sondrio e già alle 15,30 avrebbe potuto risalire su un treno per Milano. Sarebbero state sufficienti due ore e mezza per raggiungere la sua città.
La assalì un atroce dubbio. Estrasse nuovamente dalla tasca del giubbetto i biglietti che aveva da poco riscoperto e ne osservò le rispettive timbrature. Il primo era stato vidimato a Milano alle 7.24. Considerando di aver raggiunto Tirano soltanto alle 12, mancavano all’appello due lunghe ore. Allora inclinò il secondo biglietto per evitare il riflettersi dei raggi del sole e tentò di leggerne il timbro che, assai sbiadito, pareva indicare le 11.27.
Alice ritornò subito sui suoi passi per osservare di nuovo il grosso quadro elettronico che sovrastava la biglietteria. Spalancò gli occhi e senza accorgersi restò immobile, con il viso rivolto verso l’alto e la bocca un poco dischiusa. In quegli istanti realizzò che, con tutta probabilità, aveva potuto compiere solo una sosta a Sondrio per poi risalire sul treno successivo delle 11.30 sul quale, poco dopo, si sarebbe “risvegliata” senza ricordare più nulla. Si tormentò domandandosi perché mai, del tutto inconsciamente, avrebbe optato per una fermata in quella cittadina e per quanto si sforzasse di trovare una risposta, le tornava soltanto il vuoto più assoluto. A testa bassa e ancora pensierosa si lasciò alle spalle il caseggiato giallo di quella piccola stazione e si ritrovò presto in una piazzetta rettangolare dominata da una chiesa probabilmente edificata durante il periodo rinascimentale. Rimase incantata nell’osservarne le cupole tonde e il lungo campanile che si stagliava nitido, chiaro, come sovrapposto ad una vicinissima collina verde e piacevolmente incorniciato da uno sfondo irregolare costituito da brulle e spigolose montagne. Un’aria pungente le scivolava addosso, in provenienza dai pendii circostanti e nonostante il suo giaccone nero risultasse molto pesante, Alice tremava di freddo e batteva i denti con veloci spasmi incontrollati. A quel punto sperò di trovare un locale per scaldarsi almeno un po’ e mangiare qualcosa.
Subito le capitò di osservare una minuscola insegna illuminata da alcuni neon intermittenti che segnalava un piccolo bar, proprio dall’altra parte della piazza e, in men che non si dica, gli fu dentro.
“Buongiorno, scusi, la toilette?”
“Segua il corridoio, poi a destra.” Fu la risposta di un uomo sulla cinquantina che, dietro al bancone, le accennò vagamente la direzione con un movimento rapido e quasi impercettibile della testa calva. Tenendo gli occhi bassi continuava a strofinare, con fare ossessivo, un panno colorato su alcune stoviglie già del tutto asciutte.
Alice osservò l’umido e piccolo salone individuando nella penombra e in fondo al locale un angusto corridoietto. Appena lo imboccò poté notare una testa di cervo imbalsamata che decorava la parete. Rabbrividì, ritenendo di cattivo gusto tutto lo stile dell’arredamento. Alice adorava ogni tipo di animale e più volte aveva persino valutato un possibile e radicale cambiamento alimentare. Una parte di lei avrebbe desiderato già da tempo di divenire vegetariana ma la sua golosità innata per ogni varietà di salume, aveva sempre ostacolato quella decisione.
Un pesante portone di legno intarsiato cigolò aprendosi e obbedendo alla sua spinta. L’ultima cosa che avrebbe voluto fare in quel momento sarebbe certo stato slacciarsi la cintura e doversi abbassare i jeans. Il freddo della montagna le era penetrato bene a fondo nelle ossa ma, proprio per questo, il bisogno di urinare l’aveva accolta con impellenza.
Lo stanzino del bagno era privo di riscaldamenti, la piccola finestra era stata lasciata socchiusa dietro a una tendina scozzese e la sua pelle si raggrinzì ricordando una buccia di arancia.
Dopo aver risollevato i jeans ne riaccomodò le tasche accorgendosi della presenza di qualcos’altro dentro una di esse. Infilò bene a fondo la mano gelata e ne ricavò un post-it giallo, ancora colloso e sul quale, a matita e con una calligrafia sconosciuta, vi era stato annotato un indirizzo: “Via Mazzini, 14”. Lo rigirò. Dietro nulla. Lo ripiegò a metà e lo ripose con cura con i biglietti vidimati del treno.
Restò qualche secondo immobile, percepì il freddo avvolgerla e ghiacciarle nel profondo l’anima. Gli enigmi relativi alle sue amnesie la stavano consumando ogni volta di più e i semplici sentori cominciavano a prendere forma tramutandosi in indizi materiali, reali che le causavano paura, tanta paura.

Una volta accomodata ad un tavolino tondo, un po’ barcollante e di un pregiato legno massiccio, estrasse dalla valigetta il suo computer. L’indomani si sarebbe recata dalla nonna e le avrebbe confidato ogni cosa. Era parecchio preoccupata e, a dire il vero, l’ansia pareva divorarla.
Era già brutto sapere di compiere azioni senza consapevolezza, figuriamoci provare anche la brutta sensazione di aver combinato qualcosa di sbagliato. Ecco! Si trattava di questo: solo un presagio ovviamente, ma Alice non riusciva più a restare in pace con se stessa. Viveva costantemente tesa, in una specie di fitta oscurità.

Non trascorse mai un giorno, un solo giorno in tutta la sua esistenza, nel quale non avesse pensato a un’altra ipotetica vita priva di quel dannato incidente. Forse sarebbe stata una persona del tutto normale, avrebbe potuto svolgere un bel lavoro fuori casa. Magari si sarebbe potuta permettere un vero fidanzato, uno di quei rapporti assidui e durevoli e avrebbe potuto circondarsi di bella gente, di veri amici. Sarebbe stata considerata da molti estroversa, simpatica, allegra, e anche lei avrebbe potuto assaporare ogni genere di scialbo divertimento e magari la gioia vera, spensierata. L’esatto opposto di ciò che invece si trovava a vivere costantemente in solitudine, sempre impegnata a dover gestire un perenne e delicato equilibrio mentale contando soltanto sulla sua forza che piano piano veniva meno, esaurendosi.

Le furono portati dei pizzoccheri fumanti che non esitò a divorare a piene forchettate. Sgranocchiò due panini croccanti che afferrò da un cestino di vimini poggiato su di una piccola e inamidata tovaglietta rossa posta al centro del tavolino. Li trovò gustosissimi.
Si domandò da quanto tempo fosse a digiuno, avrebbe potuto tranquillamente divorare un altro intero piatto ma si trattenne, meglio non esagerare.
Una volta colmato lo stomaco, effettuò sul portatile una ricerca relativa alla città di Sondrio. Mentre inseriva la via indicata sul bigliettino nella barra di Google, le comparse automaticamente un relativo suggerimento: “Sondrio Hotel”, forse uno spam pubblicitario. Vi cliccò e poté osservare le immagini di diversi alberghi collocati in quel paesotto. Tra i tanti, uno corrispondeva all’indirizzo del suo bigliettino e pareva trovarsi in periferia. Sebbene Sondrio venisse descritta online come una città, Alice non avrebbe mai potuto definirla tale.
Per quanto quei paesi conservassero senza ombra di dubbio il loro fascino, Alice non avrebbe mai potuto vivere in luoghi simili: amava le vere metropoli.
Era originaria di Pavia e,solo un paio di anni prima, si era trasferita a Milano. Nella sua avventura aveva coinvolto anche l’amata nonna Giulia. Desiderò lasciare quei luoghi che le ricordavano la triste infanzia e, considerando le sue serie problematiche di salute, la città avrebbe certamente offerto più opportunità e le sarebbe risultato più facile passare inosservata.
Alice aveva ormai deciso che avrebbe evitato ogni tipo di struttura ospedaliera e per quanto più tempo le fosse stato possibile, tuttavia qualora avesse avuto una particolare urgenza, Milano si sarebbe rivelata di gran lunga la migliore. Infine avrebbe persino duplicato le possibilità di poter trovare un’occupazione seria e abbastanza remunerativa da poter svolgere tra i muri domestici.
E, complice un po’ di fortuna, ma anche grazie alla sua laurea di ingegneria informatica, trovò quasi subito un’opportunità di collaborazione presso una multinazionale, come manutentrice continuativa dei numerosi siti online. Lo stipendio che le proposero era piuttosto buono e Alice accettò senza remore quel discreto impiego. Fu felice almeno di questo, della sua indipendenza economica. Fino a quel momento era stata mantenuta dalla nonna grazie alla parsimonia con la quale aveva saputo gestire il risarcimento che le fu affidato dopo quel terribile incidente. Dell’attività dei genitori, purtroppo, non era rimasto più niente.

Quando nacque Alice, come spesso accade in numerose famiglie, Mirella preferì occuparsi della contabilità dell’azienda soltanto part-time. Subentrò quindi quel nuovo socio. Un giovane ragazzotto appena trentenne al quale affidare una buona parte del lavoro. Decisero di integrarlo nell’azienda di famiglia quasi su due piedi, con una certa urgenza. Si vollero fidare di una importante raccomandazione e del suo aspetto pulito e curato.
Tuttavia, la loro opinione nei suoi confronti dovette mutare presto.
Quella che, di primo acchito sembrava una persona affidabile, si rivelò un vero fallimento e anche un disastro finanziario. Sparirono incassi, tracciati contabili, i dati dei magazzini andarono in parte persi. Bastò meno di un anno di quella nuova gestione a compromettere un’azienda solida, tramandata per tradizione familiare da generazioni e esistente da quasi cento anni.
Furono accesi svariati debiti che nessuno riuscì mai più a risanare. Fu la fine quando restò solo ad occuparsi della direzione. Nonostante Giulia non recuperò nulla da quell’attività, valutando la gravità dei disastri economici causati da quell’uomo, pensò che la faccenda si fosse conclusa sufficientemente bene, già così. Il ricavato dalla vendita all’asta di tutto il patrimonio immobiliare bastò fortunatamente a coprire per intero i debiti e fu così che terminò la storia relativa all’industria tessile Mainoni.
Nonna Giulia scoprì tutto quando ormai l’azienda era a un passo dalla catastrofe. Aveva accettato che quel maldestro personaggio continuasse ad incontrare la bambina soltanto perché non sii sentiva di impedirgli un riscatto. Tuttavia, nella sua intimità, non era riuscita a perdonarlo. Nessuno avrebbe potuto impedirle di conservare una pessima opinione nei suoi confronti poiché si era permesso di giocare con la vita di tre persone, a causa della sua ubriachezza. E quando Giulia venne a conoscenza di tutti i disastri economici che causò all’azienda, riuscì a resistere ancora, a fatica, per quasi un anno finché maturò la decisone di comunicargli che le visite alla sua Alice non erano più gradite. Man mano che furono svelati nuovi particolari della vicenda Giulia non poté evitare di odiarlo e con tutta se stessa.
Alice, quell’uomo, non potè rivederlo mai più e neppure ne ebbe mai notizia. Crescendo il suo ricordo si sbiadì lentamente, col passare dei giorni, come passa più o meno ogni cosa.

AMNESIA: IL RITORNO. 

Dopo aver raccolto qualche informazione relativa alla città di Sondrio che non aveva mai avuto opportunità di conoscere, Alice richiuse il portatile.
Pagò il compenso all’uomo alla cassa che stavolta la degnò almeno di sottecchi, di un misero sguardo. Lasciò il bar raggiungendo presto e nuovamente la stazione. Lanciò un’ultima occhiata per nulla nostalgica a Tirano e al suo maestoso campanile. Ritirò un nuovo biglietto e attese il treno al binario, in totale solitudine. La stazione, così deserta, pareva quasi un set cinematografico e avrebbe potuto tranquillamente appartenere a una città fantasma. L’intonaco si scrostava dai muri, tutti orientati a nord e ricoperti di muffe, forse a causa della troppa umidità e alla totale assenza di raggi solari diretti. L’aria gelida le imperversava ancora sul viso irrigidendole l’espressione, donandole la sembianza di una fredda statua di marmo. E a giudicare dai colori del cielo, il sole stava già cominciando a calare tra le alte montagne, rendendo l’atmosfera cupa e surreale e così tanto suggestiva da riuscire a trasformare un sogno qualunque in un incubo ad occhi aperti.

Autore: Nadia Fagiolo

Adoro leggere, scrivere, vendere i libri. Sono libraia da sempre. Prendo spunto da personaggi o fatti del quotidiano e sento l'esigenza di amplificarli e tradurli in racconti o poesie. Mi diverte, è uno sfogo e una passione.

31 pensieri riguardo “AMNESIA 2.”

  1. Ben scritto, cara Nadia. Il proseguo di questa “amnesia” che non conosce confini e paletti, che si manifesta quando si manifesta e nei modi che vuole lei quasi avesse, per assurdo, una sua precisa coscienza! Siamo di fronte a una persona che deve accettare di essere quel che è, nonostante l’amnesia (la malattia) la cui causa è sconosciuta e che, con tutta probabilità, resterà tale.
    Ed è da sottolineare quanto nel racconto già tu, in maniera secca e decisa, sottolinei : “quei dottori tenevano di più allo studio della malattia che alla sua guarigione”. Non sempre ma spesse volte il medico fa del malato una cosa da esaminare per il suo piacere, per il suo egoismo di conoscenza, e non per obbedire al giuramento di Ippocrate.
    Leggeremo con piacere il seguito e vedremo forse Alice sbocciare a nuova vita, non guarita ma capace di fare del suo handicap una virtù utile alla vita.

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    1. Hai sintetizzato il capitolo perfettamente, credo che stavolta Beppe, non vi sia una morale, almeno per come l’avrei pensata fin’ora. Questo sarà un giallo, forse più banalotto, di svago e con spezzoni di vita. Ma la fine prevederà una sorpresa diversa. Chissà… per ora i miei appunti conducono altrove.😊 (Ma non si sa mai…)😊 Grazieeee.

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    1. Luna, bellissimo nome hai!!! Grazie per la tua lettura e sì, la foto rappresenta ( tu lo sai certamente) l’interno di un campanile con la sua spirale che, in questo caso, ci sta bene come paragone con la mente di Alice. Grazie per la super attenzione. Buona “fine domenica!”😉

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  2. Deve essere terribile soffrire di forti e frequenti amnesie e esserne coscienti. Non per difendere l’operato dei medici, ma le malattie della mente, da trauma e non, sono sempre gravi, difficilissime da inquadrare e curare. Idem conviverci.
    e nel tuo scritto c’è questa consapevolezza perchè, nonostante la voluta tensione, hai utilizzato un fondo di dolcezza che è rispettoso della situazione.

    Il mio solito e proverbiale ritardo mi permette di andare dritta al terzo capitolo. Vado 🙂

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