FIVE HOURS TO LIVE (6).

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Camminavo da almeno un’ora, mantenendomi sul sentiero battuto che attraversava la foresta. Tutt’intorno era buio pesto, perciò avevo utilizzato l’applicazione torcia che era installata nel cellulare d’ordinanza. Avevo recuperato un nuovo telefono nel sacco delle divise che Jonny aveva fatto recapitare al mio appartamento. Tutti i membri della comunità erano in possesso di un apparecchio simile, per il quale erano state abilitate solo le chiamate interne. Sull’isola erano stati collocati numerosi ripetitori, tuttavia solo gli addetti al Grande Progetto avevano ricevuto l’autorizzazione per poter accedere a Internet. In ogni caso non soffrivo di solitudine e, men che meno, sentivo la mancanza di qualcuno. Questa limitazione, che avrebbe anche potuto causare disagio, era invece vissuta da me come una sorta di benedizione. Nessuno sarebbe mai riuscito a contattarmi, e dunque, dimenticare il mio passato sarebbe stato più facile: non intendevo infrangere le regole vigenti a Kupa Point e non avevo motivo di mettere a rischio la mia felice permanenza sull’isola.

Lungo il tragitto avevo mantenuto un passo veloce, perciò, a un tratto, sentii l’esigenza di fermarmi per riprendere fiato.
Numerose abitazioni erano disseminate ovunque, nei luoghi più ovvi e accessibili come in quelli più impervi e nascosti. A quell’ora così tarda, erano circa le tre di notte, tutti gli abitanti di Tetepare dormivano beati. Delle capanne si intravedevano solo i tetti, che si stagliavano appuntiti e più neri del buio.
Puntando di nuovo la torcia in avanti, verso terra, avevo notato il sentiero restringersi e poi proseguire; si era ridotto a poco più di uno stretto passaggio. Mi era parso di trovarmi dinanzi a un bivio, o meglio, avevo avuto solo l’impressione che più persone fossero passate in mezzo all’erba alta, pressandola e tracciando in quel modo un varco, una specie di percorso secondario. Il fascio di luce proveniente dal cellulare aveva illuminato per un attimo le mie gambe, rivelandole velate da una abbronzatura tenue e dorata.
Il suolo trasudava molta umidità, e nel cielo non erano visibili né stelle né luna. Stavo tentando di trovare il coraggio necessario per avventurarmi in quella direzione, data la gran quantità di rettili e di ragni velenosi, nonché di insetti schifosi, che immaginavo proliferassero in gran quantità sull’isola.
Mi ero abituato a convivere con scarafaggi e lucertole di ogni dimensione, eppure, mi sarebbe stata sufficiente la vista di un qualsiasi aracnide, anche a due metri di distanza, per scatenarmi un attacco di panico. Mio malgrado, l’aveva avuta vinta la curiosità. Avevo sentito l’esigenza di dover proseguire: in fin dei conti non avevo più sonno e intendevo approfittare della tranquillità della notte per ispezionare l’isola. Avevo ripreso a camminare in maniera piuttosto titubante e procedevo verso Ovest. Una luna grande e dorata era appena emersa da una coltre stagnante di nubi, e mi aveva concesso di poter ammirare, seppur per un istante, l’austero promontorio di Tetepare in controluce: nero e bordato di palme da cocco si imponeva sul cielo, circondato e quasi incoronato dai tralicci della sua preziosa centrale idroelettrica.
Avevo sentito il bisogno di fermarmi ancora per un po’. Intendevo ammirare quello strano paesaggio; avevo pensato a quanto la natura si stesse impegnando per fondersi in un tutt’uno con l’opera prepotente dell’uomo; e sebbene il risultato fosse piuttosto rispettabile, non avrebbe soddisfatto pienamente nessuno.

Mentre ero intento a riflettere, trasportato dalla fresca brezza oceanica, mi era giunto all’orecchio un lontano risuonare di voci. Dopo un lungo tragitto in solitudine, avevo persino sperato di imbattermi in un’anima viva, per poter scambiare anche soltanto due parole. Serbando quel mio desiderio, ero avanzato ancora di qualche passo. In lontananza, oltre la rada foschia esalata dalla terra fradicia, avevo scorto un gruppo di persone. Mi era subito balzato all’occhio qualcosa di strano: nessuno di loro esibiva la divisa di Kupa Point. Mi era ritornato in mente il lungo discorso fatto da Jonny al nostro arrivo sul rispetto delle regole, tra le quali proprio l’obbligo di una tenuta comunitaria, per cui ero rimasto impietrito. Osservavo quei tizi camminare avanti e indietro in maniera ritmata e meccanica; mi era sembrato che fossero di guardia a un enorme capannone situato alle loro spalle. A causa del continuo inspessirsi della nebbia non riuscivo a vederli bene, eppure ero quasi sicuro che quelle persone indossassero dei giubbotti a manica lunga e che imbracciassero persino delle armi. Ero quindi rimasto accovacciato per qualche minuto nell’erba alta, in silenzio assoluto. Valutavo, tra me e me, se fosse valsa la pena di proseguire, o se fosse stato meglio lasciar perdere. Infine avevo optato per un saggio dietrofront, quasi pregando di non venir scoperto. Fino a quel momento non avevo dato peso alle parole pronunciate da David nel corso del nostro litigio, ma durante tutto il tragitto di ritorno queste si avvicendavano senza tregua nella mia testa, originando pensieri inquietanti. Cominciavo a sospettare che gli obiettivi della T.D.A. potessero spingersi oltre quello che ero arrivato a immaginare. E se a nostra totale insaputa ci fossimo ritrovati coinvolti in qualcosa di grosso, e ben camuffato dalla gran libertà che ci era stata concessa? Qualora i fatti si fossero rivelati tali, avrei dovuto porgere delle scuse sincere a David.
Non avevo pensato di indagare sull’entità del ruolo lavorativo che era stato assegnato al mio miglior amico, ma il dubbio di aver sbagliato nel sottovalutarlo cominciava a farsi largo, in quel momento, come un grande vuoto, dentro di me. La scoperta della presenza di uno squadrone di militari nella foresta era stata in grado di risvegliare il mio buon senso all’improvviso. Mi ero convinto che la loro presenza non potesse essere casuale. La vista delle armi mi aveva spaventato, ma il desiderio di indagare sulla faccenda si era fatto più forte della paura. Sarei tornato in quel luogo magari in pieno giorno, per meglio soddisfare ogni mia legittima curiosità.

THE PROFET SONG
Oh oh, people of the earth
Listen to the warning
The seer he said
Beware the storm that gathers here
Listen to the wise man

(May, Queen).

Ero tornato a casa con il sorgere del sole. Il cielo sopra Tetepare cominciava a tingersi di un fiabesco rosa corallo, e se non avessi già camminato tanto a lungo, nessuno avrebbe potuto impedirmi di dirigermi alla spiaggia per assistere, in prima fila, all’ennesimo spettacolo messo in scena da Madre Natura. Invece le gambe mi dolevano parecchio, e un vortice di pensieri insensati, forse dovuti in parte alla stanchezza, non mi dava tregua. Pur non dovendo rispettare un vero e proprio orario di lavoro, avevo intenzione di sbrigare in fretta il mio dovere, per potermi poi dedicare, in santa pace e in tutta tranquillità, all’agognato piacere.
Mio malgrado, ciò che avevo scoperto quella notte mi aveva profondamente turbato. Sentivo dentro di me l’esigenza di doverne parlarne al più presto con qualcuno. Avrei anche potuto far visita a Marie; mi sarebbe toccato svegliarla, ma ero piuttosto sicuro di venir accolto con entusiasmo, anzi, mi sentivo persino di poter riuscire a spuntare un suo ennesimo invito a colazione. Ma nonostante tutto, di questi argomenti avrei di gran lunga preferito parlarne con David. Nel corso della mia escursione notturna avevo avuto modo di pensare all’accaduto, e soprattutto avevo riflettuto davvero a lungo in merito al diverbio che io e David avevamo sostenuto solo il giorno prima. La rabbia che avevo provato nei suoi confronti si era già attenuata, e speravo con tutto me stesso di essere ancora in tempo per tentare una rappacificazione.

Mentre mi accingevo a risalire gli scalini che conducevano alla mia veranda, avevo sentito gridare da qualcuno il mio nome. Mi era sembrato strano, dato che era molto presto. Avevo appena riposto il mio telefonino nella tasca dei bermuda notando che il display segnava le sei meno cinque minuti. Sull’isola ero solito scattare un’infinità di fotografie rivolte al paesaggio, e avevo desiderato immortalare anche quella magnifica alba. Si trattava di un hobby che adoravo praticare sin da ragazzo, e che, come gli altri, in seguito avevo abbandonato. Tuttavia mi ero sorpreso ancor di più quando, voltandomi, avevo realizzato che quella voce apparteneva a Jonny. A passo svelto l’uomo si dirigeva verso la mia abitazione, sorridendo e sventolando una mano in segno di saluto.
“Ehi, Mike, come sei mattiniero!”
“E tu, cosa ci fai così presto da queste parti?”
Reputavo un fatto straordinario dover imbattersi in Jonny in un luogo diverso dall’ambito dell’accettazione o dai suoi dintorni. Dovevo aver lasciato trapelare un bel po’ di tensione che avevo accumulato durante la notte, perché Jonny aveva subito ribattuto: “E’ tutto a posto. Amico, rilassati! Ritengo solo che l’alba sia l’ora ideale per fare un po’ di sano movimento. Passavo da qui per caso, e ti ho visto arrivare. Dunque, pratichi del trekking anche tu?”
“Trekking? Sì, certo! Però solo di tanto in tanto. La costanza non è la mia miglior qualità.”
“Ottimo. Sei solito percorrere il sentiero che conduce alla centrale, o mi sbaglio?”
“Vado dove mi vogliono condurre le gambe, e qui a Tetepare i sentieri sono talmente tanti che posso permettermi di percorrerne uno diverso ogni volta.”
“Allora è per questo motivo che non ci siamo mai incontrati in precedenza.”
“Credo di sì, ma sono certo che da oggi ci incontreremo tutte le volte. Accade sempre così: quando ci si lamenta di qualche cosa con qualcuno, poi, questa, non capita più”.

Poi era calato una specie di silenzio. Anche l’isola sembrava essere ancora addormentata. Gli unici rumori che giungevano all’orecchio erano i cinguettii degli uccelli e il lontano sciabordio delle onde che si infrangevano sulla battigia. Eravamo rimasti immobili, per un lasso di tempo che mi era sembrato interminabile, dato che avevo persino provato una specie di imbarazzo.
Per un attimo avevo anche pensato di riferire a Jonny ciò che avevo osservato nel corso della notte nella foresta. Dopotutto, grazie a un aspetto ordinato e pulito e a un carattere schietto e sempre gioioso, sin da subito quell’ometto mi aveva fatto un’ottima impressione. Avrei desiderato ricevere da lui una risposta plausibile che fosse anche stata in grado di tranquillizzarmi, almeno un po’. Tuttavia avevo preferito tacere, sebbene mi fossi dovuto trattenere a stento. Ero rimasto zitto proprio grazie alle parole che il mio amico David aveva pronunciato nel corso del nostro litigio, e che, come un mantra, avevano continuato a risuonare nel mio cervello per tutto il tempo: “Ho giurato, è un segreto”. Se Kupa Point celava un grande mistero, che David aveva preferito tenere per sé anche a costo di rovinare la nostra profonda amicizia, come avrei mai potuto concedere tanta fiducia alla prima persona che era passata, per caso, proprio davanti a casa mia? Tutt’al più avrei dovuto pretendere delle spiegazioni proprio da lui, dal mio più caro amico, e nel caso in cui fossimo riusciti a riconciliarci.
Osservando Jonny avevo notato che faticava a respirare: era affannato e aveva il fiatone. Se davvero fosse stato così allenato a camminare, come aveva dichiarato solo un attimo prima, non si sarebbe mai affaticato in quella maniera per un modesto tratto di strada percorso a piedi. Inoltre, durante la conversazione, aveva ribattuto ripetutamente, con un certo nervosismo, un piede a terra.
Jonny si era poi congedato con i consueti modi garbati, dichiarando di dover sbrigare delle pratiche urgenti all’accettazione. 

Ero finalmente riuscito a rimettere piede in casa mia. La stanchezza dovuta alla notte in bianco cominciava a farsi sentire. Mi era inoltre sopraggiunto un terribile mal di testa; sentivo il bisogno impellente di fare una rilassante doccia tiepida.
Prima del lavoro avrei dovuto farmi prescrivere alcuni antidolorifici dal dottore di turno, presso l’ambulatorio, ma chiarire la brutta faccenda con David era rimasta la mia priorità.
Avevo poi bussato alla sua porta, ma senza ottenere una risposta.
Quel giorno, come tutti quelli seguenti, mi ero recato da David più volte, in orari diversi, e sempre sperando che, prima o poi, quel maledetto uscio si aprisse. Mi era sembrato strano che il mio amico trascorresse volentieri tutto quel tempo fuori casa, dato che, fino alla settimana prima, aveva preferito restare segregato nella sua capanna, rifiutando ogni genere di svago e di divertimento. Avevo cominciato a preoccuparmi per lui, e se il tempo lo permetteva, stavo il più possibile sotto la veranda. Osservavo i passanti, ne studiavo ogni loro movimento. .
Erano trascorse in quel modo almeno due settimane, ma di David non avevo visto neanche l’ombra. Non l’avevo mai scorto per strada, né avevo avuto modo di incontrarlo presso la dispensa. In compenso avevo scopato almeno una dozzina di volte con Marie. Non ero geloso di lei, e non mi faceva né caldo né freddo che andasse a letto con altri. Non avrei potuto definire il nostro rapporto un’unione di convenienza, dato che, in un certo qual modo, l’affetto provato per lei era sincero. Girava voce che sull’isola vi fossero altre donne che si davano da fare almeno quanto Marie; tuttavia quella notizia non mi aveva interessato per niente. Con la stessa ostinazione con cui avevo cercato di dimenticare la persona insoddisfatta che ero prima dell’esperienza a Tetepare, mi ero imposto di non rinunciare al divertimento, ragion per cui non mi sarei certo preso la briga di coltivare una relazione seria.

Quando non pensavo a David, mi sentivo bene. La libertà concessa dalla T.D.A era riuscita ad alleggerirmi l’anima. Mi percepivo in forma perfetta, e osservandomi allo specchio mi vedevo addirittura ringiovanito. Mentre credevo di recuperare ciò che non avevo mai fatto, e mentre mi concedevo una vita che non avrei mai potuto permettermi prima, stavo rischiando di perdere un bene prezioso, che, senza saperlo, avevo proprio sotto agli occhi.
Marie aveva cercato di rassicurarmi riguardo all’assenza di David. “E’ adulto e vaccinato, inoltre, qui a Tetepare, tutti sono sereni e beati. Non devi essere preoccupato per lui. Sono pronta a scommettere che, come te, a quest’ora si trova in ottima compagnia”. La donna aveva pronunciato quelle parole mentre cercava di riallacciarsi il reggiseno. Le sue tette erano ovali e abbondanti, e proprio perché pesanti le ricadevano fin sopra l’ombelico: riuscirle a contenerle in un misero drappo di stoffa sembrava davvero un’impresa impossibile. Marie aveva già superato la quarantina. Mi incantavo a osservarla mentre si aggirava nuda nella sua capanna. Di tanto in tanto, senza alcuna malizia, si chinava per raccogliere piccoli grumi di fango, che dopo essersi incastrati nelle suole delle scarpe d’ordinanza finivano sul pavimento; la ammiravo camminare con un passo leggero e elegante che era in grado di far vibrare le sue natiche dorate e tonde. La sua schiena era perfetta, mi piaceva osservarla nella penombra, quando Marie accedeva al piccolo vano che ospitava la toilette.

Da lì a poco avevo dovuto fare i conti con un nuovo attacco di panico, il primo da quando mi trovavo a Tetepare. Il respiro si era fatto corto all’improvviso, e avevo percepito un nodo in gola. La vista si era annebbiata, sapevo di avere pochi secondi a disposizione per cercare di accovacciarmi a terra, evitando così una possibile brutta caduta. Avevo imparato a convivere con quella sintomatologia, che avevo avuto la sfortuna di conoscere sin da bambino.
Avevo sperato che quella brutta bestia si fosse finalmente scordata di me; io l’avrei lasciata volentieri a Londra, insieme a tutto il resto. Mio malgrado, le cose non erano andate così.
Negli ultimi giorni alcune vicende mi avevano turbato. In seguito a quel malessere mi ero convinto a entrare nella casa di David, con o senza di lui. Inoltre avrei dovuto affrontare la realtà e trovare il coraggio necessario per ritornare in quel luogo nascosto nella foresta.

 
(Continua.)

 

Autore: Nadia Fagiolo

Adoro leggere, scrivere, vendere i libri. Sono libraia da sempre. Prendo spunto da personaggi o fatti del quotidiano e sento l'esigenza di amplificarli e tradurli in racconti o poesie. Mi diverte, è uno sfogo e una passione.

24 pensieri riguardo “FIVE HOURS TO LIVE (6).”

  1. Ed ecco che quelli che sembravano essere dei sospetti cominciano a diventare dei potenziali pericoli. Certo, l’isola è fantastica, belle donne (che si ispirano all’amore libero, quello sessantottino!) non mancano, però, forse, è come essere in una gabbia dorata. Non ci si annoia, non manca il tempo libero per fare o non fare niente, però qualcuno intuisce che l’isolotto non è un paradiso nonostante venga spacciato per tale. Alcune personaggi, per via dei loro comportamenti non poco ambigui, non possono non destare sospetti. Ed allora bisogna improvvisarsi investigatori.
    Come sempre, Nadia, il tuo lavoro non manca di essere fortemente adrenalinico, e ovviamente scritto con un a penna come Dio comanda. Complimenti.

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  2. ho ricevuto l’avviso della tua pubblicazione ieri sera sul tardi e vista la lunghezza non avevo intenzione di gustarlo con calma.
    Letto e piaciuto. La storia si fa intrigante. La scomparsa di David, la presenza inquietante di Jonny, i misteri che aleggiano sull’isola. Sono dei begli ingredienti per rendere la storia avvincente.
    Aspetto la prossima puntata per capire cosa farà Mike. Scopre che David è tenuto segregato da qualche parte? Quali misteri nasconde l’isola e che Mike cercherà di scoprire.

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  3. Letto e piaciuto 🙂
    Stavolta la bilancia tra descrizione e narrazione pende sul primo piatto. So che descrivere è una tua ottima specialità, sempre bravissima. Ora che anche Mike si sta rendendo conto che non tutto è oro colato in quell’isola, aspettiamo le azioni.
    Un caro saluto.

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