
Spero di regalarvi una lettura gradita e cinque minuti di relax. Buon fine settimana!
Papà osservava i germogli sugli alberi che ondeggiavano alla brezza leggera. “E’ primavera!”, disse, e si precipitò fuori.
Lo sentivo trafficare, il rumore proveniva dalla cassetta degli attrezzi ubicata in giardino.
Quella era una specie di tradizione che si ripeteva anno dopo anno e che proseguì persino quando divenni adulta.
Dal balconcino della veranda lo osservavo assicurare le corde dell’altalena ai rami più robusti dell’ulivo.
“Questo esemplare avrà più di cent’anni!”, soleva ripetermi più o meno ogni volta, nel momento in cui ci ritrovavamo a passargli davanti. Per questo motivo, e anche a causa della sua mole, consideravo quell’albero alla stregua di un Re. La sua presenza mi rassicurava: lo credevo capace di vegliare su di noi, e, nel contempo, di poter governare ogni altra specie vivente esistente nelle vicinanze, anche ben oltre il mio bellissimo giardino.
Quel rituale rappresentava per lui uno solo uno dei piacevoli compiti che appartengono all’essere genitore; per me, significava molto di più. Era in grado di annunciare la bella stagione e le imminenti vacanze, ma, sopratutto, mi dava la certezza di essere amata.
Papà è stato sempre presente, in ogni cosa, e non solo: per me è stato anche una mamma.
Le prime volte in cui mi misi alla prova con quel gioco, ne avevo quasi timore. Mi accomodavo rigida sul suo asse traballante. Quella tavoletta di legno, anno dopo anno, veniva smaltata con cura prima di essere riposta alla fine della stagione. Papà infilava tutto in un grosso sacco di juta, e, infine, lo conservava sul ripiano più alto dello scaffale in cantina.
Avevo indosso una tale tensione che mi impediva persino di voltare la testa. Mi percepivo rigida come se mi fossi tramutata in un tronco d’albero, il collo e le schiena mi dolevano molto, e, talvolta, mi facevano male persino le gambe.
Vacillavo quando una spinta di papà giungeva all’improvviso: mi spaventavo e diffidavo persino del mio saldo appiglio alle corde. Socchiudevo gli occhi, detestando quella sensazione di trovarmi con i piedi a mezz’aria; la trovavo rivoltante, mi dava quasi il voltastomaco.
Mi infastidiva prendere tutta quell’aria sul volto, anche quando, in assenza di vento, sugli alberi non vibrava neanche una foglia. Per questo motivo, almeno un paio di volte, mi capitò perfino di scoppiare a piangere.
“Cosa c’è tesoro? Non avere paura, è divertente, è come volare, non trovi?”
“Papà, mi sembra di cadere! No, niente affatto, non mi diverto, io voglio scendere, e subito!”
“Ma se ti attacchi bene, è impossibile scivolare.”
“Papà, smettila. Ho detto che mi fa paura!”
Per un po’, di quel gioco, non ne volli più sapere. Osservavo l’altalena dalla veranda, o dalla finestra, e se, in parte, mi sentivo attratta da lei, dall’altra preferivo restare con i piedi ben saldi a terra. Non me la sentivo di affidare il mio corpo a quella tavoletta di legno sospesa nel vuoto, non credevo di possedere tutto quel coraggio.
Una volta, ritornando in auto da una gita fuori porta, io e papà ci ritrovammo a passare nelle vicinanze di un parco giochi. Lui frenò bruscamente e dopo aver parcheggiato la vettura all’ombra di un grande ippocastano, insistette affinché accettassi di fare un’altra passeggiata. Era sera ormai, ma faceva ancora caldo, credo che fosse luglio, oppure agosto. Osservai alcuni bambini più piccoli di me dondolare con un’aria felice sulle altalene del parco. Ridevano, erano eccitati e gridavano: “Dài, più forte, spingimi ancora!”
Quando ritornammo a casa nostra, mi fermai per un attimo sulla soglia e lanciai un’occhiata di sbieco alla mia bella altalena. Aver osservato quei bambini mi aveva fatto bene, mi ripromisi dunque che l’indomani avrei tentato ancora l’ardua impresa.
Il pomeriggio seguente mi feci forza. Mentre poggiavo di nuovo il mio piccolo sederino sul traballante asse di legno, notai la sagoma di papà stagliarsi ritta dietro la tenda alla finestra. Potrei scommettere che, quel giorno, gli sfuggì un lungo sorriso.
Mi ero seduta sul bordo dell’altalena in modo che restasse inclinata, così da poter tentare di toccare terra almeno con la punta delle scarpe: ma niente da fare! Prima di riuscirci, avrei dovuto crescere ancora un bel po’. Non mi restava che stringere le corde con tutta la forza che avevo; le sentivo penetrare nella carne tenera delle mie mani. Ambo i palmi si erano arrossati e mi bruciavano, così, presto, rientrai in casa sbattendo la porta.
“Ieri sera, quando stavi dormendo, sono uscito in giardino per allungare un po’ le corde dell’altalena. Ora ti sarà più facile imparare”, mi disse papà, mentre lo raggiungevo a tavola per la colazione.
Quella mattina avrei dovuto recarmi a scuola. Non ne avevo voglia, ma dovevo tener duro: mancavano solo pochi giorni al termine delle lezioni e poi sarebbero cominciate le vacanze estive. Il sole splendeva già alto in un cielo limpido blu. Gli alberi del mio giardino lasciavano filtrare generosi raggi color oro.
Notando l’altalena e le corde allungate, volli ritentare. Presi un bel respiro, mi feci coraggio. Andò meglio.
Dondolavo avanti e indietro con i piedi. E continuai imperterrita, in quella maniera, per giorni interi, finché le mie scarpe rosa divennero verdi. Ero riuscita a sradicare interi ciuffi d’erba e, proprio sotto l’altalena, non era rimasto altro che terra smanciata.
L’anno successivo, la ricomparsa dell’altalena fu vera gioia. L’ulivo era vegliato sul giardino per tutto l’inverno e, finalmente, avrei potuto trascorrere del tempo in sua compagnia, ben riparata dalle sue fronde, sotto la sua ombra. Non mi importò nemmeno che le corde dell’altalena si fossero riaccorciate. Sebbene riuscivo a dondolare ormai abbastanza bene da sola, non osavo spingermi oltre il limite che mi imponevo: i miei piedi, tenendo le gambe ben tirate, non avrebbero mai dovuto sollevarsi per superare in linea d’aria le finestre del primo piano.
Trovavo però divertente oscillare sospesa tra la terra e il cielo. Lassù era semplice fantasticare. Qualche volta potevo fingermi una bella farfalla colorata, e, qualche altra, immaginavo di essermi trasformata in un uccello e di poter così volare ovunque, per raggiungere il mare, o, perché no, addirittura la tour Eiffel.
Mi incuriosiva il cambio di prospettiva dovuto all’altezza e tutto, oscillando veloce, pareva mutare la propria forma. Non che fossi ferrata in merito alle nozioni tecniche relative al disegno, ma mi divertiva il cambio repentino del punto di vista. Poteva trattarsi anche solo di un sasso che si trovava proprio sotto di me: dapprima dissolveva i suoi contorni, poi li distorceva, e, infine, sembrava addirittura più piccolo. Anche il tetto della mia abitazione, osservato mentre ero in movimento, mi restituiva l’impressione di inclinarsi verso destra. Prima d’allora non mi era mai capitato di osservare una casa con il tetto storto. Mi entusiasmavo a ogni nuova scoperta, e quel gioco mi dava allegria.
Andare sull’altalena arrivò a piacermi così tanto, che, in inverno, cominciai a soffrirne la mancanza. Mia mamma no, non mi mancava, dopotutto non l’avevo mai conosciuta. Se la mia vita fosse andata in maniera diversa, se solo mi avesse amato, e poi abbandonato, avrei potuto provare una sensazione simile, ma più forte. E rabbia. Tanta rabbia.
In inverno mi annoiavo. Papà sosteneva che, se l’altalena fosse stata esposta al freddo, si sarebbe rovinata.
Invece, durante la bella stagione, quando mi sentivo triste, e talvolta anche di notte, scendevo in giardino solo per abbracciare il tronco del mio ulivo, e per dondolare un po’. Subito svaniva la malinconia, e io mi sentivo più leggera.
Papà, da tempo, non mi spingeva più e sembrava disinteressarsi alle mie attività sull’altalena. Eppure, quando rientravo in casa, non mancava mai di rivolgermi un sorriso.
Crescendo cominciai a sfidare le leggi della fisica: il peso di un corpo in movimento sprigiona dell’energia che può alleggerirlo o lo appesantisce a seconda dell’altezza e dei fattori di accelerazione o di decelerazione. Insomma: io mi alleggerivo quando l’altalena si trovava in alto, oppure, quando dondolava veloce.
Prima di ridiscendere, ed era questione di un secondo, subivo uno strattone dovuto alla gravità e al peso del mio corpo. Le corde, che si erano allentate raggiungendo il punto più alto, si ritendevano poi all’improvviso restituendomi un contraccolpo, che, difficilmente, riusciva a prendermi alla sprovvista.
Almeno una volta avrei desiderato eseguire un giro completo, un giro della morte. Se mi fossi aggrappata ben salda, non sarei potuta cadere. Tuttavia non osavo dare quella spinta decisiva, quel forte colpo di bacino che avrebbe permesso al seggiolino, roteando, di oltrepassare il ramo e attorcigliarsi ad esso.
“Sofia, fai piano, o spaccherai quella pianta!”, gridava preoccupato papà, affacciandosi alla finestra.
In questa occasione, come capitava anche in altre, fingevo di non sentire.
Forse, grazie a un miracolo, i rami dell’ulivo non si ruppero mai.
Talvolta il vento forte spingeva l’altalena permettendole di dondolare. Allora mi piaceva pensare che una bambina, dopo aver scavalcato la recinzione di casa mia, avesse desiderato salirvi per giocare.
Non ero mai riuscita a stringere delle vere amicizie, nonostante me la cavassi molto bene a scuola e collaborassi in maniera educata con tutti i compagni di classe.
Tutti mi consideravano una ragazzina alquanto bizzarra, forse troppo pensierosa, e sempre con un’aria sognante. Spesso, nei piccoli borghi, la gente spettegola per passatempo e ama parlare a vanvera. Tanti erano coloro che criticavano la nostra famiglia. Ritenevano mio padre una persona schiva e seria, un poco di buono. Non era vero! E criticavano anche mia mamma, raccontando che fosse una specie di prostituta, una avvenente brasiliana che mai aveva messo piede in Italia. Non avrei potuto né smentire, né confermare: semplicemente, io non la conoscevo. Tuttavia sono convinta che certa gente chiacchiera solo perché si ritrova una lingua in bocca.
Quelli non sapevano niente di noi! Eppure avevano raccomandato ai propri figli di tenersi alla larga da me, di evitarmi, solo perché non frequentavo la chiesa e non vantavo una famiglia “per bene”: per meglio chiarire, con un numero di componenti uguale o maggiore di tre.
Quella bambina fantasma continuava a dondolare sulla mia altalena, sorrideva, mi era simpatica.
Il sole era scomparso dietro a un grosso nuvolone grigio e si preannunciava l’arrivo di un bel temporale. Il vento spirava con violenza, e lei, ancora sull’altalena, volava in alto e quasi toccava il cielo.
Mi stavo accingendo a uscire, desideravo incontrarla, ma cominciò a diluviare proprio in quell’istante. La ragazzina scappò via di corsa e, veloce come un fulmine, ritornò da dove era venuta.
Mio padre aveva conosciuto quella donna in occasione di un meeting a Rio de Janeiro. Poi seguitarono a rivedersi per qualche anno, soprattutto in estate e, di quel loro grande amore, presto rimasi solo io.
Una volta papà mi confidò che lei era molto bella e che io le somigliavo tanto.
Quando pioveva forte, papà si precipitava in giardino. Proteggeva l’altalena avvolgendola in un telo di plastica che era solito legare alle sue corde con un un nastro stretto, formando così una specie di sacco.
Quando era assente, e un temporale si scaricava con furia, l’altalena e l’ulivo diventavano un tutt’uno e piangevano grosse lacrime di pioggia regalando l’impressione di essere ambedue vivi, di essere umani.
Talvolta mi capitava di udire un richiamo: erano loro ad avere bisogno di me.
La accarezzo, il suo legno si è consumato, è diventata opaca. Nessuno, da tempo, si prende più la briga di riverniciarla. Mostra alcune crepe, delle cicatrici causate dalle troppe intemperie, e dei segni, delle rughe disegnate dal tanto tempo che è passato. L’ulivo è florido, resiste. D’altronde è secolare e sempre sarà il Re indiscusso del mio bel giardino.
La accarezzo, mi siedo su di lei e rimango quasi incastrata nelle sue corde. Non la ricordavo tanto scomoda! Dondolo un po’, piano. Mi risulta inevitabile ripensare a mio padre. Il suo volto mi appare sfumato tra le nuvole bianche. Mi assale un po’ di malinconia, ma il peggio è passato. Nel contempo mi sento felice per ciò che mi ha insegnato, per quello che ho, per tutto l’amore che mi ha regalato.
“Mammina, è pronta?”
“Sì, tesoro. Corri a vedere!”
“Che bella! Mi è mancata così tanto! Per favore, potresti raccontarmi ancora quella storia?”
“Vuoi che ti parli del nonno?”
“Sì, ti prego mamma!”
“L’ha costruita proprio qui, in questo giardino. Si affaccendava come un matto andando avanti e indietro, reggendo ogni genere di attrezzo. Io, che ero più piccola di te, cercavo di avvicinarmi a lui mentre era intento nel suo lavoro. Ma era diventato un po’ scontroso, mi allontanava. Desiderava che questa altalena fosse per me una sorpresa. Era anche molto cocciuto, e, proprio per questo, riuscì nel suo intento. Sau, era tanto tempo fa.”
“Uffa, vorrei che il nonno fosse qui!”
“Sarebbe bello, tuttavia è impossibile. Lui, ora, vive lassù, nel cielo. Ci sta osservando e son certa che sorride.”
“Allora salgo sull’altalena, così posso volare in alto e, con un po’ di fortuna, riuscirò anche ad abbracciarlo.”
“Sicuro, ce la farai!”
“Stasera vorrei chiedere al papà di spingermi fortissimo. Ma, adesso, mi puoi aiutare tu?”
Osservo mia figlia e mi sento felice. Penso al ciclo delle stagioni, al ciclo della vita: alti e bassi, prospettive, energie, punti di vista.
“Mamma, basta! Non spingermi più, ho un po’ paura!”
“Non preoccuparti, ho smesso. Ti voglio bene!”
“Anche io te ne voglio. E appena mi fermo, scendo e ti abbraccio forte. L’ho promesso al nonno.”
Mi piace:
Mi piace Caricamento...