MALEDETTO ACUFENE. (Pubblicato ne: “I RACCONTI DEL LAGO” Historica ed.)

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Nonostante assumesse quei tranquillanti, le voci nella sua testa non tacevano mai. Quella calda notte di agosto Katia non riusciva a prendere sonno. Si girava e rigirava nel suo letto cercando un po’ di refrigerio e rotolandosi, occupando ora un estremo del materasso, ora l’altro, ma niente da fare. L’afa non contribuiva certo a recarle sollievo, la sua pelle era madida di sudore.
Decise dunque di alzarsi e si diresse disperata davanti alla finestra che aveva lasciato volutamente spalancata. Quello che udiva era una specie di richiamo: “Katy, Katy … sono qui!”. Questo le capitava più o meno sempre, sia di giorno che di notte e soprattutto quando si coricava sfinita, molto tardi e dopo una piena giornata lavorativa. Assumeva ormai regolarmente quelle pastigliette tonde, rosse e amare ma la sua situazione non era migliorata per niente.
Qualche anno prima, la comparsa di questa patologia la impressionò al punto di causarle un’infinita ansia e molta paura e arrivò persino a credere che potesse esser stata presa di mira da un fantasma o che, nella migliore delle ipotesi, quella voce potesse appartenere a qualcuno di sua conoscenza con doti paranormali o magari telepatiche.
La diagnosi dello specialista? Uno strano acufene. Uno dei più rari. Di solito, un tale disturbo uditivo causa la percezione continua di fischi a diverse frequenze ma Katia, forse grazie a una innata e spiccata immaginazione, era in grado di trasformare quegli striduli rumori in vere e proprie parole di senso compiuto.
Nel tempo fu visitata da vari dottori che le proposero le cure più svariate. Le seguì senza indugio e carica di speranza, una dopo l’altra ma alla fine, tutte risultarono inefficaci.
La tenda bianca davanti alla finestra si scostò travolta da una folata di aria calda che spostò insieme anche i capelli lunghi e neri di Katy.
E in quell’istante, quella voce parve giungere ancora più chiara e come sospinta da quella brezza bollente, risultò più reale del solito. La povera Katia trasalì: “Katy … Katy … sono qui!”
Katia si serrò di istinto le orecchie con le mani, in un gesto che le apparteneva e che ormai era diventato un vero e proprio ticchio. Restando così, in quella posizione, quella misteriosa e dannata voce le dava almeno l’impressione di affievolirsi, esattamente come sarebbe potuto accadere con un qualsiasi altro rumore proveniente dall’ambiente esterno.
Questo particolare alquanto strano aveva da sempre suscitato in Katy un forte dubbio rispetto alle diagnosi ricevute dai medici.
Sebbene fosse certa di non essere pazza, provò a convincersi in tutte le maniere che quel “calo di volume” percepito attraverso le orecchie turate, potesse essere soltanto frutto della sua immaginazione o tutt’al più una bizzarra conseguenza dovuta allo stress. Sarebbe stato dunque più saggio arrendersi ad ogni possibile teoria e riporre solo fiducia nelle diagnosi mediche; d’altronde, tutti quei dottori le avevano diagnosticato un comune acufene e, a rigore di logica, non esisteva una spiegazione più plausibile.
Ma la convivenza con quella voce stava diventando ormai impossibile, la ripetitività di quei suoni si intensificava sempre più e Katia non riusciva a condurre una vita serena e normale. Odiava quel mantra noioso e infinito che le rimbombava di continuo nel cervello, come un tamburo, come un martello, come una campana che non dava tregua a quella ripetitiva tortura:” Katy, Katy… sono qui!” “Katy, Katy… sono qui!”
Improvvisamente, proprio mentre era assorta in quella sorta di commiserazione, ecco ancora quella voce assumere un tono prepotente. Si cinse la testa tra le mani percependo una fitta atroce alla nuca e gli occhi inumidirsi di lacrime. Fu in balia della disperazione pura.
Stanca di quella stanza che notte dopo notte diventava sempre più stretta, più calda e più opprimente del solito e senza conservare la minima speranza di riuscire ad addormentarsi, pensò che le potesse tornare utile uscire a fare due passi. Prima d’ora non aveva mai osato vagare da sola nel buio, tuttavia, la situazione attuale si era resa insostenibile.
Si sfilò con un gesto deciso la leggerissima camicia da notte in cotone lanciandola alla buona sul letto. Indossò un vestitino rigato, una specie di canottiera, che giaceva ben ripiegata sulla sua ordinata scrivania accanto al monitor del pc. Infilò le prime scarpe da ginnastica che trovò nell’atrio e si precipitò fuori casa con la stessa foga e la stessa velocità che potrebbe utilizzare un ladro durante una fuga a gambe levate.
Quella voce la raggiungeva sempre più nitida e forte e le diede l’impressione di sopraggiungere proprio dal vicino bosco.
Katia non ne poteva davvero più. Quanto avrebbe desiderato guarire e finalmente poter assaporare tutto il piacere di un normale, sano e silenzioso riposo. Era quindi disposta a tutto, a tutto davvero, pur di far tacere quel maledetto tormento.
Aumentò la sua andatura, era davvero arrabbiata. Avrebbe raggiunto quella voce e stavolta sarebbe andata fino in fondo, una volta per tutte.
“Katy, Katy… sono qui!”
“Qui dove? Parla!” Gridò ormai esasperata e pensò: “ Devo essere diventata davvero pazza se sto a discutere con un acufene!”
Fino ad ora Katia si era dimostrata fin troppo paziente nel sopportare quel disagio ma l’eccessivo caldo di quell’estate e l’agognato bisogno di riposo, le avevano ormai sottratto ogni sorta di calma e di ragione. Si immobilizzò come pietrificata udendo un’inaspettata e del tutto reale risposta provenire chiara dal vicino bosco: “ Al lago, al lago!”
Si preoccupò seriamente per se stessa, poi scuotendo la testa rimostrando ogni sua possibile incredulità in merito, si impose di proseguire il suo cammino ma, soltanto pochi passi dopo, udì ancora echeggiare forti quelle parole: “ al lago, al lago, al lago…” Ora la voce non smetteva più, si ripeteva ciclica, con lo stesso ritmo, lo stesso tono e l’identica cadenza ma con un’intensità sempre crescente.
Katia fu in preda alla pura paura, ciononostante non aveva alcuna intenzione di tornare indietro. Non avrebbe certo rinunciato a tutto proprio ora! Sapeva che il problema si sarebbe comunque ripresentato l’indomani, poi il giorno dopo, e ancora, e ancora, fino a sfinirla in una tortura senza fine. Trovò quindi la forza di proseguire nonostante le sue gambe sottili tremassero incerte affondando insicure nel terriccio umido e morbido del sottobosco.
In quell’oscurità che risultava illuminata solo da qualche piccola stella, si percepiva attratta da una forza misteriosa come se fosse diventata un pezzo di ferro preteso da una enorme calamita posta nelle vicinanze.
Da ragazzina era invece solita recarsi su quel lago, per pescare. Suo padre, che coltivava da sempre quella passione, riuscì a insegnarle davvero ogni tecnica. Il poco tempo che trascorrevano insieme era dedicato a quello sport. Katy ne risultò davvero attratta e diventò presto molto capace, si divertiva tantissimo a catturare pesci di ogni specie e senza alcuna minima difficoltà. Sapeva bene come adattare il galleggiante ad ogni fondale, quale amo e quale esca utilizzare e mai capitò che potesse rientrare a casa con il secchio vuoto.

Un brutto giorno, mentre era sola e si stava accingendo come sempre a lanciare la lenza, udì qualcuno beffeggiarsi ad alta voce di lei. Un gruppo di uomini, che riconobbe subito come gli assidui frequentatori del piccolo bar di paese, si trovavano causalmente nei paraggi ed erano impegnati a schernirla. “Avete visto come pesca? Ah, ah, ah … ma guarda te…chi ci tocca trovare qui. Siamo sicuri che è una donna? Controlliamo?” L’uomo calvo, che aveva già incrociato più volte per le vie del centro , le si avvicinò con fare losco e prepotente. “Voglio vedere da vicino. Sei una bambina o un bambino? Ah, ah, ah.” La afferrò per un braccio mentre la lenza venne strattonata e l’amo si incagliò alla riva. Katia provò terrore al solo pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere. Forse recarsi a pescare da sola, nel bosco, avrebbe potuto essere pericoloso.
” E’ davvero una femmina. Ah, ah, ah! Che bel seno acerbo hai! Va’ a casa a fare la maglia Sampei, o una bella torta, forse è meglio!”. Tutta la compagnia di uomini scoppiò in una fragorosa risata e si allontanarono scomparendo tra gli alberi.
Ma fu solo l’inizio per Katia. Da quella volta, per tutti gli abitanti del piccolo borgo, il suo nome fu Sampei, solo Sampei.
Non ritrovò mai il coraggio di tornare da sola al lago e si vergognò per diverso tempo anche nel recarsi in paese ma, nonostante tutto, si reputava ancora fortunata ad abitare in una zona periferica così bella. Tuttavia, a quell’episodio si susseguirono moltissimi giorni in cui avrebbe solo desiderato scappare via, lontano da tutti, per finire magari su un’isola del tutto deserta dove avrebbe potuto pescare in qualsiasi momento, indisturbata e soprattutto senza essere scoperta, in segreto.

La noiosa voce proseguiva determinata e fungeva da sottofondo ai suoi ricordi, anzi, pareva sempre più reale e sempre più vicina.
Le si ghiacciò letteralmente il sangue udendone poi un’ulteriore variazione con altre nuove parole: “ Brava! Sono qui, sono qui!”
Con un grande coraggio, trovato chissà dove, avanzò ancora finché le fu possibile osservare il lago.
Si commosse a quella vista. Ben nascosta tra alcuni canneti c’era la piccola e tanto familiare spiaggetta di sassi. Era rimasta proprio uguale ad allora. Una sottile striscia di terra, raggiungibile tramite due gradini di granito e posta accanto a uno spiazzo erboso. Lì accanto troneggiava ancora la sagoma nera di una betulla che, viceversa, Katia ricordava più piccola. Vi si diresse senza più alcuna esitazione, assecondando la probabile fonte della misteriosa voce.
Si trovò presto al centro della spiaggia e osservò il lago che si increspava lieve alla brezza notturna. Un odore acre e dolce, forte, si impadronì delle sue narici. I ricordi della sua infanzia su quelle sponde la travolsero uno dopo l’altro. Gli stivali di gomma, la cassetta rossa degli accessori di pesca, il retino malandato con il manico di legno e il secchio grigio. Gli occhi di suo padre, le sue mani grandi.
“Devi staccare l’amo, così!” E lo rivide nitido, accanto a lei, in ginocchio sulla riva, mentre tratteneva abilmente una carpa che si dimenava con improvvisi e potenti colpi di coda. Le sue branchie si sollevavano e si richiudevano con spasmi veloci e rendendo possibile osservarne al di sotto la carne viva, pulsante, con il suo bel colore amaranto.
Tutt’a un tratto la voce si zittì. Fu improvvisa pace, beatitudine dei sensi. Dapprima percepì un surreale silenzio interrotto soltanto dall’infrangersi delle piccole onde sulla riva, poi si commosse incantandosi ad ascoltare altri delicati e puri rumori della natura; una serie di suoni, una vera musica, che ormai credeva di aver dimenticato per sempre.
Il canto del cuculo giungeva in lontananza e, da più vicino, quello delle cicale. Il vento spirava lieve agitando in un fruscio le fronde degli alberi, qualche pesce guizzava di tanto in tanto fuori dall’acqua, una rana era ben nascosta nel canneto e dei legnetti scricchiolavano con fragore sotto le suole delle sue scarpe. Pensò che tutto ciò che il lago inghiotte, poi restituisce alla sua spiaggia levigato, invecchiato, tramutato in una specie di tesoro.
La notte era finalmente tornata ad essere magica e meravigliosa.

Ad un tratto Il canneto si inclinò agitandosi con un borboglio e una grossa ombra la raggiunse in un baleno, afferrandola per un braccio e trascinandola a sé e verso il lago. Katia, urlando, cercò di divincolarsi da quella presa ma quella cosa era troppo forte, rabbiosa, invincibile. Uno strattone più deciso le provocò la perdita dell’equilibrio. Cadde prona, con il pieno viso nella melma e percepì l’acqua fresca del lago sommergerle prima le braccia e i capelli, poi le spalle. Lottò con tutta sé stessa cercando di ancorarsi con le unghie al terreno viscido, a qualche ciuffo d’erba cresciuto tra i sassi per sbaglio. Resistere fu impossibile e prima di percepire tutto il peso dell’acqua sommergerla per affogarla nei suoi invalicabili abissi, riuscì per un istante a scorgere le sembianze del suo terribile aggressore. Era una specie di Cecaelia, un mostro mitologico, un orrido incrocio tra un essere umano e un pesce. La sua pelle azzurrognola era ricoperta da alghe e esalava un forte odore simile allo zolfo misto al pesce marcio. Sulle mani esibiva squame e peli e al posto delle gambe, a filo dell’acqua, si agitavano irrequieti dei tentacoli del tutto identici a quelli di una piovra gigante.
Katia socchiuse gli occhi, certa che fosse giunta la sua fine e arrendendosi al suo tragico destino.
Sulla superficie del lago affiorarono alcune piccole bollicine trasparenti che svanirono al contatto con l’aria calda di quella notte senza luna e con poche stelle.
Katia reagì, agitò le mani in totale apnea e cercò di tentare una disperata risalita. Si ritrovò in un bagno di sudore e fortunatamente distesa sul suo comodo materasso. Il cuore pareva balzarle fuori dal petto, aveva gli occhi sgranati, era terrorizzata e incapace di calmarsi, delirante.
Solo dopo qualche minuto, dalla finestra aperta, osservando i colori dell’orizzonte poté realizzare il sopraggiungere di una nuova alba e si calmò. Un brutto sogno.
Si sedette sul letto con un rapido colpo di reni, adagiando la schiena alla testata di alcantara e asciugandosi la fronte con il bordo della camicia da notte. Sospirò più volte, con estremo sollievo.
Le sovvenne il ricordo di suo padre, che rivide in piedi, come accanto a lei. Percepì tutta la presenza di quell’uomo sempre severo, ne odorò il profumo. Ricordò tuttavia quanto nell’anima tenesse alla pesca e le sovvennero tutte le sue consuete filosofie. La pesca era paragonabile alla vita e avrebbe potuto insegnare il valore del tempo, l’attesa. E poi lo rivide in quell’espressione soddisfatta, quasi un sorriso, che sapeva illuminargli il volto soprattutto quando un pesce, abboccando improvvisamente, gli strattonava la canna.

Suo padre se ne andò da casa abbandonando Katia e sua madre. Si innamorò di un’altra donna molto più giovane di lui.
Katia per rabbia e anche per orgoglio non rispose mai ad una sua telefonata, a un suo qualunque invito e nemmeno trovò il coraggio o la forza di affrontare con lui l’accaduto. Era certa di odiarlo e desiderava soltanto dimenticare ogni cosa.
Katia fissò per qualche istante il vuoto, tamburellò le dita sul materasso. Si grattò la testa, si tappò le orecchie. Di nuovo quella voce:” Katy… Katy… sono qui!”
In uno slancio afferrò il telefonino appoggiato sul comodino. Lo osservò titubante e per qualche istante, prima di decidersi a comporre quel numero che giaceva ormai dimenticato nella rubrica. Pigiò con l’indice tremante l’iconcina verde, attese una sequenza interminabile di squilli augurandosi che il numero risultasse ancora attivo. Finalmente, dall’altra parte, udì una voce familiare sussurrare commossa: ”Katy? Katy … sono qui!”

Da quel giorno, come per miracolo, Katia guarì per sempre dal suo acufene e ricominciò persino a pescare.

Autore: Nadia Fagiolo

Adoro leggere, scrivere, vendere i libri. Sono libraia da sempre. Prendo spunto da personaggi o fatti del quotidiano e sento l'esigenza di amplificarli e tradurli in racconti o poesie. Mi diverte, è uno sfogo e una passione.

26 pensieri riguardo “MALEDETTO ACUFENE. (Pubblicato ne: “I RACCONTI DEL LAGO” Historica ed.)”

  1. Scrittura pulita, essenziale, che non lascia spazio a dubbi: la suspense è sempre sul filo del rasoio. L’acufene si ripete e si ripete ed ha una voce, o meglio è la voce di un’anima che cerca di mettersi in contatto con l’anima di Katy, che non ha (forse) saputo dimenticare quel padre tanto amato e che, di punto in bianco, sparì dalla sua vita privandola delle poche sue poche certezze di adolescente impacciata, timida, impaurita.
    Un racconto ambiguo, che gioca con gli stereotipi dell’horror per dar corso a una sorta di presa di coscienza, a un atto di forza che viene tanto dal cuore quanto dalla necessità di capire perché l’acufene è fatto di “voce”.
    Ricordo sì e no la prima versione di questo racconto, ma non era bella quanto questa, ciò a riprova che scrivere e sopratutto un lavoro di riscrittura, di revisione, di volontà di superare sé stessi. Direi che ci sei riuscita molto bene, hai superato te stessa con questo racconto rieditato.

    Continua così, Nadia. Le idee e la fantasia non ti mancano di certo, e il talento è al tuo fianco. Ascolta sempre la voce che c’è in te e che ti spinge a dare il meglio.

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    1. Certo. Vorrei continuare. Studiare, leggere, rieditare e soprattutto inventare. Anch’io mi sono accorta del percorso fatto e ne ho gioito. Spero di sorprendermi in continuo miglioramento, sempre.
      Grazie mille Beppe.
      Pian pianino vorrei aggiustare tutto il blog. Buona giornata.

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    2. Hai lasciato un commento davvero esauriente e bello. Perciò ti ringrazio. Ho intenzione di rifare pian piano tutti i vecchi pezzi, riscrivendoli con un pochino di “senno del poi”. Chissà, magari succederà ancora, e ancora. E’ bello anche riscrivere perchè significa miglioramento. Significa che un pochino sono cresciuta e trovo migliorie tecniche, errori grammaticali che, tempo fa, neanche sognavo di poter trovare.
      Ciao grazie per il sostegno.

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  2. Racconto bellissimo e scorrevole Nadia! Si nota che la scrittura ce l’hai nel sangue…e, del resto, non poteva essere altrimenti tra lavoro e passione… ora devo andare a finire di leggermi la storia dell’amnesia… 😉 Un saluto!

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    1. Ah, in parte è vero anche se mi sto rendendo conto che l’esercizio quotidiano è importantissimo e mi sto impegnando molto per affinare sempre più la mia scrittura e non potrò mai arrivare, non potrò mai smettere di migliorare. E questa mancanza di limite mi affascina, mi rincuora. E’ e sarà sempre possibile fare meglio. Sempre. Ti ringrazio. Tanto. Ciao.

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