TEO E ELENA.

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Mentre ritornava dal bosco, Teo pensava: “Meglio soli che male accompagnati!”. Certo, l’appartamento sarebbe risultato più vuoto, silenzioso e forse più disordinato. Quella sera gli sarebbe anche toccato di organizzarsi con il cibo. Eh sì, qualcosa avrebbe dovuto pur mangiare! Per una volta, forse, si sarebbe potuto servire al reparto gastronomia del supermercato, nonostante quelle porzioni fossero davvero piccole, insapori, e, inoltre, gli sarebbero costate un “occhio della testa”.
Appena varcò il cancelletto per raggiungere il suo piccolo appartamento in quella graziosa corte ristrutturata da poco, la sua unica preoccupazione fu di ripulirsi le scarpe dal fango. In campagna bastava un temporale di modesta entità, come quello capitato la sera precedente, perché le stradine acciottolate o di terra divenissero subito melmose, appiccicaticce, viscide e zeppe di pozze. E Teo detestava poggiare i piedi su qualcosa di scivoloso. Si sarebbe percepito traballante, sporco e maledettamente instabile. Nonostante adorasse passeggiare in quella rigogliosa campagna, dopo un acquazzone, preferiva evitare addirittura di uscire. Di solito andava così. Di solito, ma non quella volta.

Ancora ricordava un brutto capitombolo che gli capitò di fare qualche anno prima. Non aveva voluto indossare le solite scarpe da ginnastica, ma pigro com’era, preferì tenere ai piedi i mocassini del lavoro; si aggiunga poi che per tutta la mattinata aveva serbato in testa un solo pensiero: controllare se quei piccoli puntini gialli, che aveva rinvenuto qualche giorno prima sulle radici e sulle cortecce delle robinie, potessero già essersi tramutati in succulenti chiodini. Era così scivolato lungo la strada che conduceva al bosco, ruzzolando all’improvviso a terra e procurandosi così un dolore mica da poco all’osso sacro. Quel dolore fu insopportabile e dovette tenerselo per un bel po’. Insomma, da quella volta detestò il fango, la sua viscidità, il suo colore, la sua consistenza.
Si lisciò il gargarozzo con le mani ancora bagnate a causa dell’acqua che era sgocciolata dalla canna. Le scarpe se le era lavate così, tenendole ai piedi, con un getto piuttosto forte e freddo. Quegli spruzzi gli avevano persino bagnato le calze e, raggiungendogli le ginocchia, anche i pantaloni.
Quelle Adidas, acquistate a inizio millennio, erano ormai consunte e non avrebbero mai potuto rovinarsi di più. Si sforzò di ricordarne il colore originario. Ora apparivano tinte di marrone, o forse erano grigie e del tutto squamate, come la pelle di un serpente alle prese con la muta.
Il suo collo era ancora bagnato dall’acqua, la fronte risultava madida, e sotto le ascelle, sulla maglietta di cotone a maniche lunghe, si erano formati due aloni di sudore, larghi e scuri, nonostante il clima di quel settembre non fosse per nulla caldo.
Tutti gli alberi avevano perso la maggior parte delle loro foglie, e sì, nel sottobosco, avrebbe potuto essere spuntato qualche simpatico funghetto giallo. Ma Teo, quella volta, ai chiodini nemmeno ci aveva pensato.

Elena. Una volta la amava. La novità forse. Era stato un fidanzamento rapido, un colpo di fulmine. Non l’aveva conosciuta bene e, soprattutto, non sapeva a cosa potesse andasse incontro quando accettò di prendersela in casa. L’aveva fregato, e per bene.
Si chiedeva come avesse fatto ad accettare quella convivenza: si riteneva un orso, quasi un vero eremita.
E lei? Lei non aveva mai compreso quel suo bisogno di solitudine, le sue grandi passioni: i funghi e la meccanica. Non che si lamentasse, ma era proprio chiaro che non le potessero andare bene. E Teo era certo che persino la famiglia di Elena fosse stata contraria a quella relazione. Aveva accettato di incontrarli soltanto un paio di volte, come se fosse un favore o un obbligo nei confronti della sua nuova compagna. Fu un disastro.
Poco contava. Si sarebbe comunque annoiato. Era solito stancarsi di tutto, di tutti, e troppo in fretta.
La sua vita era il bosco, far funghi e prendersi cura della sua moto che ormai utilizzava pochissimo. Nonostante ormai fosse vecchia e parte integrante del mobilio del garage, Teo le garantiva un’assidua manutenzione.
Quanto adorava infilarci le mani! Era una scusa come un’altra per soffermarsi a odorarne il profumo di benzina e d’olio che esalava e che alimentava i suoi ricordi di gioventù e libertà. Lo aspirava a pieni polmoni, inspirando forte attraverso le narici in maniera ravvicinata e profonda. Trascorreva poi intere ore a eliminare ogni traccia di polvere, o accarezzandola e lucidandola. Ne pareva ossessionato, come una casalinga frustrata davanti a uno specchio unto e bisunto.
E quando ritornava su, nel piccolo bilocale, ritrovava Elena sempre al telefono che chiacchierava a bassa voce, quasi bisbigliando. Comunque a Teo non importava poi così tanto e, dal canto suo, Elena non intendeva affatto renderlo partecipe di quelle conversazioni.
Quel rapporto stanco si trascinava così ormai da anni. Solo a cena, qualche volta, Teo era costretto a rivolgerle la parola per lamentarsi: “Questa pasta è scotta.”, “E’ insipido! Passami il sale.”, “Fammi il caffè!”.
Lei, come un robot, si limitava ad annuire con la testa e obbediva meccanicamente agli ordini impartiti dal compagno tornando presto e appena possibile a rivolgere lo sguardo al suo telefonino che riponeva sempre alla sua destra, sul tavolo e a una distanza calcolata per cui, anche sbirciando, Teo non avrebbe mai potuto visualizzarne lo schermo.
E se avessero posseduto un vero appartamento, uno più grande, Teo avrebbe senz’altro desiderato dormire in un’altra stanza. Dopo essersi guardato un film, di quelli un po’ sconci, avrebbe potuto masturbarsi in santa pace. Invece era sempre costretto a chiudersi in bagno, per farlo in qualche maniera, mentre lasciava scorrere di proposito interi fiumi d’acqua nel lavandino.
Non si concedeva un vero rapporto sessuale da un’eternità, tuttavia non pareva affranto. Preferiva fare da solo. Da parte sua non era mai esistita nessuna attrazione sessuale nei confronti di Elena e figuriamoci ora che, con i suoi 47 anni suonati, la considerava solo una vecchia alle prese con la premenopausa.
Si scambiavano continue occhiate risentite tra quegli stretti muri di casa: se qualcuno fosse stato presente, avrebbe potuto trovare quel silenzio addirittura imbarazzante.

Nelle stagioni più calde, Elena era solita trascorrere quasi tutta la giornata all’aperto. Al mattino si recava da sola in paese e il pomeriggio soleva aggirarsi nel piccolo giardinetto. Vangava, strappava ogni erbaccia e si prendeva cura dei suoi fiori e soprattutto delle rose e, in particolare, adorava la primavera. In questa stagione riusciva finalmente a gioire delle sue fatiche. E mai che recidesse un fiore, se non per potarlo quando era del tutto appassito. Considerava quel gesto come un infierire sulla natura che, invece, rispettava e amava anche più di se stessa.
Non era invece raro che si perdesse ad osservare quei meravigliosi cespugli: le più profumate Damascene, le sofisticate Abracadabra e le Alba, le più tardive, le sue preferite forse a causa del bianco candore dei loro soffici petali. Il suo giardinetto ne contava più di 20 specie e nonostante fosse il più piccolo di tutto il complesso, appariva senz’altro il più curato.
Le ammirava spesso dondolare al vento, eleganti, quasi a sfidare il cielo con i loro toni pastello. Osservandole riusciva a sognare, a immaginare una vita diversa. In giardino qualche volta sorrideva.
Teo sfilò le scarpe fradice, abbandonandole sul primo gradino d’accesso alla minuscola veranda. Si frugò nella tasca del pantalone della tuta che appariva logoro, bagnato e sporco. Infilò la lunga chiave nella toppa.
Lo accolse l’anticamera, semi-buia e vuota. Elena non si era mai voluta impegnare nel rivedere quell’arredamento che era rimasto tale e quale a quando Teo viveva da solo e, a dir la verità, lei non era mai nemmeno stata dedita alle faccende domestiche. Un velo di fitta polvere rivestiva ogni cosa, conferendo all’ambiente una tangibile parvenza di abbandono.
Teo, dal canto suo, aveva sempre ritenuto che pulire e badare alla casa dovesse competere a Elena, quindi: lungi da lui l’impugnare una scopa o, peggio ancora, uno straccio!
Dopotutto, che si sappia, un po’ di polvere non aveva mai ucciso nessuno, no?
Si rilassò. Elena non sarebbe più tornata e quegli spazi divenuti ristretti gli parvero subito più confortevoli.
Si diresse in bagno. Si sfilò con stizza i vestiti che ricaddero appallottolati sul pavimento insieme a una buona dose di terriccio ormai divenuto secco.
Si infilò nel box doccia. Finalmente avrebbe riavuto quel bagno tutto per sé. Si lasciò massaggiare dal getto tiepido del diffusore. Ebbe un improvviso sussulto: la lavatrice! Avrebbe dovuto lavare tutta quella roba e al più presto. Che diamine di tasto andava premuto? Si rassicurò. Non era certo uno stupido qualunque, in qualche maniera ci sarebbe riuscito. Si abbandonò allo scroscio dell’acqua e lo assalì la voglia di toccarsi un po’. Socchiuse gli occhi e lasciò scorrere la sua mano.

Dopo una buona mezz’ora si strofinò bene nell’accappatoio insistendo ad asciugarsi all’altezza del collo. Ogni tensione era scivolata nello scarico insieme all’acqua sporca.
Ora profumava di muschio, era lucido, fresco, la sua pelle era levigata e morbida.
Con eleganza uguale a quella di un elefante si precipitò all’armadio grande. Si rivestì indossando subito il pigiama. Stava ormai sopraggiungendo la sera, si percepì stanco ma aveva l’ultima faccenda da sbrigare.
Poi, finalmente, si lasciò sprofondare nel suo divanetto in alcantara. Non desiderava cenare, ma solo dormire.

Quella era stata una giornata molto faticosa. Aveva programmato tutto e nei minimi dettagli.
Avrebbe atteso il ritorno di Elena. Tempo permettendo e come sempre, sarebbe uscita di primo mattino, presto, per sbrigare le solite commissioni. E andò proprio così. Teo la osservò dalla finestra mentre salutava Emma, la vicina di casa, con il suo consueto fare tanto grazioso che gli fece accapponare la pelle.
Poi Elena tornò e appoggiò sul tavolo quel grosso e rumoroso sacco del pane.
A quell’ora di mattina la via sarebbe stata deserta, come sempre.
Aveva pensato proprio a tutto e stavolta si era persino superato! Lo doveva a se stesso. Inoltre era davvero arrabbiato. Ma chi si credeva di essere quella donna, così subdola e tanto perfida che aveva osato prenderlo “per i fondelli”?
Avrebbe voluto cercare funghi invece cambiò idea. O meglio: al bosco era arrivato, ma solo all’inizio. Poi, proprio a causa delle pozzanghere, era tornato indietro. Siccome non intendeva rinunciare alla passeggiata, quasi per un miracolo, decise di proseguire sulla strada asfaltata che conduceva in paese. Era davvero da tanto tempo che non si faceva più vedere da quelle parti, in centro. Eppure, una volta, la sua vita sociale era piuttosto normale. Ma in un piccolo borgo tutti conoscevano tutti e questo, con l’avanzare dell’età, lo aveva infastidito al punto di tenersi alla larga dalla civiltà. Comunque, quel giorno, le cose assunsero una piega diversa.

A causa di un qualche misterioso motivo, Teo osò spingersi fino in centro. Max, il barista, era stato fin troppo gentile, aveva esagerato con i convenevoli e aveva insistito per offrirgli una fresca pinta di birra. Persino il sacrestano settantenne lo aveva osservato con troppa curiosità, rimostrando un sorriso sadico e ben nascosto sotto quei ridicoli baffetti.
Teo comprese.
Percorse quindi ogni strada e ogni viuzza, quasi accelerando il passo, come in cerca di qualcuno.
Alla fine, e non gli occorse nemmeno troppo, la sorprese con Ugo. Un suo amico d’infanzia. Già, proprio lui: Ugo il pasticcere. Lo sapeva sposato, con due figli e si era ridotto ad essere grasso come un bue. Era lì, con i suoi occhi grigi e freddi, come il ghiaccio di inverno. Accidenti, e pensare che se lo rammentava persino quasi simpatico!
Elena, quella mattina, notò subito in Teo qualcosa di strano: un’espressione quasi cordiale e che pareva serena stampata sul suo volto. Si insospettì. Perché la stava osservando in quella maniera? Come mai le pareva di buon umore?
“Elena, oggi avrei il piacere di fare una passeggiata con te, nel bosco.”
Elena strabuzzò gli occhi, si toccò più volte nervosamente i capelli. Aveva ben capito? Teo desiderava la sua compagnia? Fu in preda al timore, balbettò: “Ma… ha piovuto… Teo, ci sono le pozzanghere!”
Sapeva di non poterlo contraddire. Si era permessa di farlo una volta, una sola volta, e quella, non si era certo rivelata una bella esperienza.
Quando era arrabbiato gridava e si trasformava in un mostro. Le arterie gli si gonfiavano deformandogli la fronte, gli occhi diventavano sporgenti e parevano scivolare fuori dalle rispettive orbite. Agitava le grosse braccia e dalla bocca perdeva delle lingue di bava, come un cane rabbioso. L’aveva così afferrata per il polso, obbligandola poi ad inginocchiarsi e a chiedere perdono.
Elena era persino arrivata a pensare di essersi meritata quel trattamento. Solo qualche tempo dopo, comprese che avrebbe dovuto parlarne a qualcuno, avrebbe dovuto denunciare quel gesto e senza indugi. Teo avrebbe potuto avere un problema psicologico, un problema davvero serio.
“Va bene, farò ciò che desideri…”, si limitò dunque a rispondergli, con un fil di voce.
Dopo aver percorso il sentiero acciottolato e zeppo di pozzanghere, Teo e Elena scomparirono nel bosco.

Teo si addormentò così, seduto. Ronfava come un cinghiale. La sognò in un incubo. Si risvegliò ancora sudato, di soprassalto. Si versò un bicchierino di whisky che trangugiò d’un sol fiato. Tutto tranquillo, nemmeno l’ombra di un fantasma. Con calma si rimise seduto nella poltroncina rimasta tiepida e che ancora recava la sagoma del suo posteriore.
All’improvviso, da fuori, risuonò il rumore di una sirena. O forse erano due, in rapido avvicinamento.
Teo si rialzò piano, raggiunse la finestra. Scostò la tenda con un gesto lento. Un alone di polvere si liberò allargandosi in controluce, leggero.
Un’auto dei Carabinieri era parcheggiata davanti al suo cancelletto e un’altra si stava arrestando sul lato opposto della strada. Era ormai quasi buio. Il suo viso, riflesso nei vetri, era come tagliato, attraversato da spicchi di luce azzurrognola che proveniva dai lampeggianti accesi delle vetture.
Risistemò la tendina, allargò l’elastico alla vita del pigiama, accomodandolo. Si lisciò per un paio di volte il collo, si diede una sistemata ai capelli.
Quasi strisciando i piedi, si diresse alla porta, piano. Non aveva fretta e nemmeno sobbalzò un po’ quando qualcuno suonò il campanello.
Abbassò la maniglia: non aveva nemmeno richiuso la porta a chiave. Forse sorrise.
Lo afferrarono rapidi e con forza, gli costrinsero braccia e mani dietro alla schiena. Fu presto bloccato e ammanettato. Lo trascinarono in auto tra gli sguardi sgomenti di una buona parte di vicinato.

Nel bosco era stato ritrovato il corpo di una donna. Era stato ben legato e inginocchiato. Il busto era riverso su un grosso tronco mozzato. Il viso era stato lasciato a contatto con la fanghiglia e il sottobosco. Qualcuno riferì che le braccia della donna fossero ripiegate con le mani giunte, come in preghiera.
Le volanti dei carabinieri ripartirono a tutta velocità liberando nell’aria un leggero odore di carburante insieme a un silenzio profondo e surreale.
Emma la vicina, in lacrime, badò a richiudersi bene la porta alle spalle. Fu avvolta da un brivido. “Giulio, ma come abbiamo fatto a non capire che quello era matto? Ti ricordi quella volta, quella volta che… ”.
E le rose nel piccolo giardino non fiorirono mai più. Dopo essersi fatto la doccia, Teo era uscito di nuovo. Aveva cosparso di benzina quegli insulsi rovi e aveva appiccato il fuoco. Più di qualcuno era accorso nella via, forse per controllare da dove potesse provenire il fumo. Aveva fatto lo stesso nel bosco, a lei.

Quell’intenso profumo di benzina… lo avrebbe rimpianto, di sicuro.

Autore: Nadia Fagiolo

Adoro leggere, scrivere, vendere i libri. Sono libraia da sempre. Prendo spunto da personaggi o fatti del quotidiano e sento l'esigenza di amplificarli e tradurli in racconti o poesie. Mi diverte, è uno sfogo e una passione.

43 pensieri riguardo “TEO E ELENA.”

  1. Una storia dura perché dura è la quotidianità, soprattutto quella di questo momento storico che ci vede un po’ tutti vittime e carnefici. Direi che l’intento è quello di dar corpo a un racconto che mostri la crudeltà dell’animo umano. In maniera riduttiva si potrebbe dire che è questo un noir – e forse lo è -, ma c’è di più: l’analisi dei personaggi è portata sia su Teo che Elena, e ognuno di loro dice la sua propria verità, l’intervento dello scrittore, con le sue opinioni, è ridotto quindi al minimo. Di stampo faulkneriano o giù di lì. Brava.

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  2. L’unico modo per mostrare il male è dare un volto “mostrare l’umanità del male” . Non è il mostro che fa paura, ma il normale, semplice uomo. I mostri non esistono gli uomini, si.
    Questo rende inquietante la storia.

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    1. Ma… ti avevo risposto! Giuro! Mi è rimasto “appoggiato” offline.😂😂😂
      Grazie di cuore cara amica mia. Mancano le tue pubblicazioni più frequenti. Vedi di fare poco la lazzarona e di scrivere. Un abbraccio. Scusa se non ti telefono da un po’. Domani o dopo. Ok? Ciaooooo.

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