RICORDI D’ESTATE.

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Nel corso della bella stagione ci incontravamo sempre in cortile. Abitavamo nella stessa palazzina: io a pian terreno, lei, invece, occupava l’appartamento sopra il mio. Giocare sull’altalena, che era stata installata nel centro esatto del giardino, era il suo passatempo preferito. Non passava giorno che non vi si dondolasse, quasi volesse dimostrare a se stessa che il cielo non era poi così lontano e che, con un po’ di buona volontà, prima o poi, sarebbe anche riuscita a toccarlo. Era una ragazzina testarda che amava sognare. Scendeva giù in cortile e la vedevo avvicinarsi a quell’aggeggio con un passo leggero.

Utilizzava quel gioco in una maniera davvero particolare: poggiava i talloni sull’asse di legno, poi piegava le gambe, le raccoglieva al petto e le abbracciava, dopodiché allacciava le mani ai polsi e cominciava a oscillare. Non ci pensava nemmeno di reggersi alle corde. E dopo un po’, dava spettacolo: lasciava scivolare piano, con dolcezza, la sua schiena all’indietro, stringeva dunque l’asse di legno nella morsa delle cosce e dei polpacci, e faceva andar giù di colpo la testa, e senza mai smettere di spingersi. Temevo potesse rompersi l’osso del collo, e più d’una volta, lo ammetto senza vergogna, con questo suo numero acrobatico mi ha fatto mancare il fiato. Osservandola avevo come l’impressione che nel dondolio dell’altalena la sua anima tentasse di raggiungere non solo il cielo, l’immenso, ma anche i suoi sogni.

La ragazzina nutriva un grande desiderio, quello di diventare una brava ginnasta, e nel caso non ci fosse riuscita, bene, allora si sarebbe accontentata di poter calcare i palchi dei teatri più rinomati del mondo in qualità di ballerina. Il suo essere così spericolata non era solo un capriccio dovuto alla giovane età, era piuttosto un’esigenza del corpo e della mente. Lei voleva osare, e desiderava utilizzare l’altalena in maniera impropria, pericolosa, considerandola un esercizio che l’avrebbe avvicinata al suo futuro.
Tuttavia, in ogni caso, intendeva esibirsi sfidando la gravità, per riuscire a resistere sospesa nel vuoto, proprio come sapeva fare Carla Fracci, la sua artista preferita.

I lunghi capelli biondi si lasciavano accarezzare dai raggi dorati del sole, e nel corso delle sue evoluzioni ricadevano leggeri verso terra; pareva quasi che nell’aria sapessero disegnare un’esplosione di polvere d’oro.

Io non osavo disturbarla, ma non nego che amavo spiarla. Infatti, non appena sentivo echeggiare i suoi passi leggeri e monelli nella tromba delle scale, subito mi affacciavo alla finestra con l’intento di non perdermi lo spettacolo che presto avrebbe dato. Attraversava leggera il grande prato, aveva un passo che pareva una danza, e una volta davanti all’altalena la studiava solo per un momento, poi, con un portamento elegante e con un balzo a piedi uniti, si sistemava sull’asse di legno. E iniziava a dondolarsi. A questo punto io correvo a infilarmi le scarpe da ginnastica, e mi precipitavo giù, in cortile. Quatto quatto, e stando ben attento a non far rumore, raggiungevo una siepe, che, per tutta l’estate, era solita offrire dei piccoli frutti verdi, duri e appiccicosi.

Lei puntava sempre lo sguardo verso nord. Credo che amasse osservare le montagne, che da quel lato si stagliavano contro il cielo chiudendo l’orizzonte, perciò passare inosservato non era un’impresa difficile.

Sono certo che lei mi piacesse, ma non ero ancora in grado di comprendere fino a che punto. Anzi, a essere sincero, mi disturbava l’idea d’aver maturato, seppur in maniera inconscia, un tale pensiero. Mi tormentai a lungo, cercando di capire il motivo per cui non me ne fossi mai accorto prima, e alla fine dovetti accettare la più ovvia delle conclusioni: quella monella avrebbe potuto essere la sorella che non avevo mai avuto.

Però, ancora oggi devo ammettere che lei era davvero carina, nonostante avesse delle gambe più che snelle, oserei dire fin troppo magre. A ogni modo, quando le agitava in aria, riusciva a regalare a chiunque l’impressione di essere una creatura angelica. La invidiavo un po’ per quella sua innata scioltezza, ma anche per quella sua natura allegra e stramba, quasi selvaggia, e soprattutto la ammiravo per la determinazione e per il coraggio che dimostrava anche giocando. La mia indole era invece quella di un pavido: non ci tenevo ad andare sull’altalena, tantomeno a testa in giù, in una posizione così pericolosa e scomoda. Tuttavia non posso negare che ne fossi incuriosito.

Certe volte non si accontentava di restare semplicemente capovolta e immobile, e allora, con una tecnica tutta sua, cominciava a scalciare nell’aria, cercando di far avvolgere le corde attorno alle caviglie, perché se non ci fosse riuscita, lei lo sapeva bene, sarebbe rovinata a terra e non avrebbe potuto esibirsi in quella lunga serie di giravolte mozzafiato.

Non era una ragazzina granché fortunata, i suoi genitori litigavano spesso, praticamente tutti i giorni dell’anno, e non si curavano di lei o del trascorrere delle stagioni. Le loro discussioni erano oltremodo chiassose, così tanto che riuscivano a penetrare sin dentro al mio appartamento, e presumo anche in quello di altri condomini. Nonostante i suoi non fossero dei genitori modello, lei non perdeva mai il sorriso e nemmeno la voglia di giocare. Credo di non averla mai vista con il broncio, neanche quando il suo piccolo mondo fatto di segreti innocenti e di grandi sogni rischiava di franarle addosso. La sua allegria non voleva che saperne di arrendersi e i suoi occhi rilucevano sempre, come stelle. Un giorno mi confessò di non poter frequentare un corso di ginnastica artistica al quale teneva molto. In quell’occasione sul suo volto non scorsi tristezza o rassegnazione: tutta la sua figura era come avvolta in una luce che prometteva a me, e al mondo intero, che un giorno sarebbe riuscita a coronare i suoi sogni. Io, nel mio intimo, forse con un po’ di ingenuità, ero convinto che lei sarebbe stata in grado d’imparare da sé ogni genere di arte, e che, nel corso della sua vita, sarebbe riuscita a ottenere qualsiasi cosa.

Anno dopo anno, sempre nel mese di agosto, io e la mia famiglia ci recavamo in vacanza al mare, lei, invece, non andava mai da nessuna parte: i suoi genitori non avevano soldi da buttar via in svaghi e divertimenti.

Quando cominciavo ad annoiarmi, le sparavo addosso le mie munizioni, che erano i frutti verdi e duri della siepe dietro la quale ero solito nascondermi. I primi colpi andavano quasi sempre a vuoto, ma gli altri no. Quando la beccavo, lei rideva di gusto, poi mi ammoniva e metteva su un faccino fintamente duro, che a me faceva tenerezza. Diceva: «Smettila, scemo! » Io incassavo un poco la testa nelle spalle, restavo in silenzio un secondo o anche meno, dopodiché la salutavo.

«Buongiorno.»

Al mio saluto lei rispondeva con un sorriso d’innocenza maliziosa.

«Tu sei solo capace di stuzzicarmi! »

«Non è vero», ribattevo, con un fil di voce.

«Dovresti provare ad andare sull’altalena come faccio io, invece di fare lo scemo. »

Inghiottivo a vuoto, perché di saliva, in bocca, mi sembrava di non averne più nemmeno una goccia.

«Dài, prova! È divertente. »

Doveva leggermelo negli occhi che non sarei mai e poi mai salito su quell’aggeggio, e così si divertiva a pungolarmi.

Schioccavo allora la lingua nella bocca e, fingendo di essere un duro, le spiegavo che a me non piacevano certi giochi per femmine.

«Non è un gioco per femmine. È che tu sei un fifone», diceva, e poi scoppiava a ridere, lasciandomi lì da solo con i miei proiettili ancora chiusi nella mano.

Un giorno, apparentemente uguale a tutti gli altri, mi parve d’aver sentito i suoi passi lungo le scale. Sporgendomi dalla finestra, notai che l’altalena era immobile, e che in giardino non c’era anima viva. Tuttavia rimasi in attesa per qualche minuto, sperando di scorgerla. Niente, di lei neanche l’ombra. Però non ero ancora convinto, ragion per cui decisi di verificare più da vicino che giù non ci fosse nessuno. La verità è che mi stavo annoiando a morte e di stare ancora sul letto, a pancia all’aria con il walkman attaccato alle orecchie, non avevo proprio voglia. Avevo già ascoltato The Final Countdown, il mio album preferito, per ben due volte consecutive, e adesso non ce la facevo più a stare fermo e solo. Avevo una voglia matta d’incontrarla per giocare insieme a lei.

Dopo aver guardato in ogni direzione, mi rassegnai.

Ma, in quel preciso istante, l’altalena fu travolta da una carezza di vento ed emise un cigolio strano. E udii quell’invito che essa pareva rivolgermi: «Dài, sali anche tu!»

Senza comprendere bene come e perché, solo dopo essermi assicurato per l’ennesima volta che tutt’intorno non ci fosse nessuno, mi ritrovai seduto sul seggiolino di legno. Se fu io a scegliere di salirci sopra o no, non lo so; fatto sta che non potevo più fuggire, potevo solo tirare fuori dal petto tutto il mio coraggio. Prima che potessi rendermene conto mi stavo dondolando. Ancor oggi non so spiegare come accadde, ma o le mie mani non reggevano più le corde. Come guidato da una forza arcana, imitai la ragazzina, ogni gesto che le avevo visto fare per portarmi a testa in giù, e ci riuscii. Le mie gambe stringevano nella loro morsa l’asse, e io dondolavo, e il mondo era tutto sottosopra. Roba da matti!

A un certo punto accusai un capogiro, come se fossi ubriaco.

Ebbi una visione: il cielo si tramutò in acqua e vi sguazzavano alcuni bizzarri pesci-uccello; le nuvole diventarono onde spumose e altissime che cercavano di sommergere una grossa palla luminosa. Per contro, quella che doveva essere la terra era finita sopra di me e si era trasformata in una specie di tetto popolato da enormi insetti alieni che zampettavano veloci e capovolti.

Riuscii a realizzare d’esser entrato in contatto con un fantastico mondo magico. Era il suo mondo. Poi due crampi, uno dietro l’altro, al polpaccio destro e poi anche al sinistro, mi riportarono presto alla realtà. Fui nel panico più totale. Cominciai a mulinare le braccia, allentai la presa delle gambe legate al seggiolino, e mi ritrovai lungo disteso a terra e con il sedere a mollo dentro una pozza di fango, poiché quella notte era anche piovuto. Non mi piacque affatto, tanto più che mi bastò mezzo secondo per realizzare che il mio corpo era tutto un dolore, e che sulla mia faccia c’era qualcosa che per poco non inghiottii. Lo pinzai fra le dita e non faticai a dedurre che si trattava di un piccolo frutto verde. E subito dopo udii una forte risata, e la vidi di fronte a me, dolce e irriverente.

«Ehi, scemo, ti sei fatto male? L’altalena è roba da femmina, vero?”»

Con le gote ancora infiammate la rincorsi per tutto il giardino. Nella corsa ero certo di primeggiare; e quando mi riuscì di afferrarla, la atterrai con un sgambetto delicato, e poi la strinsi a me, forte, così tanto forte da farle quasi mancare il fiato.

 

Autore: Nadia Fagiolo

Adoro leggere, scrivere, vendere i libri. Sono libraia da sempre. Prendo spunto da personaggi o fatti del quotidiano e sento l'esigenza di amplificarli e tradurli in racconti o poesie. Mi diverte, è uno sfogo e una passione.

45 pensieri riguardo “RICORDI D’ESTATE.”

  1. un gran bel racconto che può tranquillamente rientrare nel filone della letteratura di formazione, scritto con gusto, con toni apparentemente pacati. Siamo di fronte a due giovanissimi che, con poco, riescono a volare alto, cioè nell’immenso mondo della fantasia. E in questo mondo capiscono meglio se stessi e si incontrano, fino a far battere i loro cuori per dar voce al “primo amore”.
    Davvero molto bello, emozionante perché fa sognare anche chi di amori alle spalle ne ha un po’ tanti e ha forse smesso di credere nella purezza di questo sentimento. Complimenti.

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  2. Bellissimo racconto, molto tenero. Non nascondo che ad un certo punto ho temuto che la ragazzina non si sarebbe più vista, che le fosse successo qualcosa di terribile, ad esempio a causa dei genitori. Invece è finito tutto bene 🙂
    Un salutone! 🙂

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